C'è un mio amico che dice che la speranza è un vuoto a rendere, un desiderio, un artefatto astratto che ci costruiamo per puro istinto di sopravvivenza. Dice, poi, che una generazione come la nostra, che ha completamente rinunciato ai propri diritti non ha molte possibilità di sopravvivenza, siamo come scimmie nella savana, se resti in gruppo ti puoi salvare, ma quando ti allontani da solo i leoni ti vedono, e ti divorano.
Dice un sacco di cose che ti fanno pensare.
Tu allora, da quel piccolo ignorante che sei, annuisci, ti afferri il mento con la manina e inizi a riflettere sul fine ultimo della creazione, contento di avere amici sì acuti.
Lui, prostrato dall'atto del condividere la conoscenza, rutta e si scaccola.
La settimana scorsa, a un concerto, ho avuto un'illuminazione, qualcosa che aveva a che fare con un ricordo, cose che facevo anni fa.
Senza ragione, mentre il gruppo attaccava la seconda strofa, mi sono rivisto nella stessa posa che avevo in quel momento, con un bicchiere di birra annacquata in mano, nello stesso posto o in uno che somigliava tanto a quello, e non sapevo più quanti anni prima. Mi sono voltato, e il mondo si è dissolto nella nebbia, è esploso.
Le prime birre erano amare come fiele, andavano subito alla testa.
La musica che ascoltavo prima era morta, sepolta nei cassetti. Il Cencios mi insegnava un mondo nuovo, Incipit Vita Nova, e quello che scoprivo veniva con me sul cromo, riavvolgere la cassettina a mano, con le matite, altro che asettico digitale.
Quando avevo diciassette anni, il mondo aveva la consistenza del ferro, e tutto mi feriva. Avevo le braccia troppo lunghe, non riuscivo a stare in piedi senza ondeggiare come una canna al vento. Non capivo le leggi che regolano l'universo - non che adesso le capisca, mi limito ad accettarle - le termodinamiche dei sistemi chiusi, i codici non scritti della vita sociale. Avrei tanto desiderato una guida, sognavo un Manuale di Sopravvivenza alla Vita, qualcosa che ti aiutasse nelle situazioni più complesse:
Sei ad un concerto. Vedi una ragazza che ti piace. La conosci? Vai al punto 8. Non la conosci? Vai al punto 2. E così via.
E invece niente, è sempre un imparare sulla propria pelle, farsi male, credere che quelle ferite rimarranno aperte per sempre, che ci sarà sempre qualcuno che ti butta sale per rinfocolare il dolore. Poi, anni dopo, o forse settimane, ti chiedi perché eri triste, e non lo saprai più, l'età dell'oro ti sembra vuota e muta, come la pagina bianca alla fine del libro.
(La pagina bianca alla fine del libro è un mistero. Il libro è finito, la storia si è conclusa, fai per chiduere il volume soddisfatto, ma ti trovi una pagina in più, bianca. Ti blocchi, sorpreso: cosa fai lì, nuda? Cosa mi vuoi dire? La guardi, e pensi che forse il vero finale era lì, e nel tempo che hai impiegato a leggere tutto il resto, le lettere si sono sciolte, sono scivolate via, si sono dissolte. Alla fine chiudi il libro, e ti resta il dubbio di aver perso qualcosa; l'ultima pagina bianca, beffarda, ti rovina il finale).
Gli anni novanta non sono mai passati, sembrano ancora lì. Io non ci credo che sono passati tutti quei giorni, non mi ci convinco. Me lo ripeto, mi faccio vedere i calendari, mi dico "ecco, vedi? Siamo nel futuro". Faccio sì con la testa, dico "vabè, sarà", ma a me sembra tutto uguale, non mi sento cambiato, sono ancora una persona impraticabile, con la barba, certo, e con un'igiene personale più dignitosa, e forse con meno capelli (forse?), e senza dubbio più felice.
Però.
Però non capisco come sia successo, che il tempo si è conservato così bene, che continuo ad essere ottimista e non rimanere mai deluso.
Sbatto le palpebre, e la nebbia si dissolve: mi volto verso il palco, il gruppo attacca la terza strofa e la tastierista fa da controcanto. I miei amici sono con me, la birra è ancora fredda.
Viaggiare nel tempo è un lavoro duro, ma qualcuno deve pur farlo.
Alzo il bicchiere.
Salute.
E strizzo l'occhiolino.