martedì, novembre 16, 2010

Venite all'Aquila - parte uno

Patrizia ci indica le transenne che bloccano l'accesso agli edifici ai lati di corso Vittorio Emanuele. Ha legato alle reti delle buste di plastica con dentro le foto dei negozi del centro ancora chiusi. Le ha stampate lei, con la sua stampante: la pioggia entra nelle buste e le cancella, portandosi via l'inchiostro. "Non sapevo che altro fare, la gente passa di qui, vede i palazzi ancora in piedi e pensa che i danni sono pochi. Non si accorge che i negozi sono tutti chiusi, che la città è deserta".
Più avanti un palazzo antico, con un grande portico chiuso da colonne; "qui ogni colonna era un punto di ritrovo. Si diceva ci vediamo alla colonna e ognuno sapeva quale era la sua. Ora sono inaccessibili. Lì" e indica un capannino in lamiera "c'era un'edicola. Su questa strada ce n'erano tre. Non avete idea di quanto fosse viva questa città".
Entrare all'Aquila non dà le dimensioni del disastro. La città ti accoglie offrendo dosi omeopatiche di rovine: una crepa su una facciata, qualche mattone caduto, una breccia che si affaccia sul buio di un appartamento. Forse in questo modo il disastro sembra meno incombente, se i danni li scopri lentamente. I palazzi del centro sono fasciati - come quando ti fratturi un osso - e scopri che le fasciature servono a tenerli insieme, a evitare che si spancino. Ci sono palazzi quasi senza danni, solo con qualche danno sul tetto. Ma il centro è inaccessibile, nella zona rossa non si possono fare lavori di ristrutturazione, quindi il buco nel tetto rimane. Così ci piove dentro, l'acqua infiltra i muri interni e quando arriva l'inverno - l'Aquila è una delle città più fredde d'Europa - l'acqua infiltrata si congela e spacca le mura, le case si rompono, gli edifici si spanciano.
Anche questi sono i danni del terremoto.
Prima di entrare nella zona rossa dobbiamo indossare i caschetti protettivi. Di fronte al prefabbricato dove ce li consegnano c'è un palazzo completamente ricoperto di ponteggi. Uno dei nostri accompagnatori ci dice che la Protezione Civile paga il noleggio di queste strutture a 18 euro a nodo. Guardo: sembrano milioni. Il noleggio viene pagato a una società di proprietà della Marcegaglia, mi dice, è stato messo su due giorni dopo il terremoto, ma non serve a niente: di là del muro non c'è niente, è crollato tutto.
Un cane ci accompagna nella zona rossa, sta con noi tutto il tempo. Non abbaia mai, non scodinzola, non ringhia, non ti viene incontro a prendersi le carezze. Cammina con noi, e basta.
Le strade si confondono, non distinguo più le piazze. Adesso, davanti al computer, apro Google Maps per capire che strade abbiamo percorso, e su Street View tutto è bloccato al prima del terremoto: le strade sono aperte, i palazzi interi, le persone entrano ed escono dalle case.
Non ci sono macerie all'Aquila: i palazzi - davvero - sono in piedi, molti edifici sono rimasti su. Ma sono tutti - tutti - danneggiati. Le porte sono aperte, mi affaccio a guardare nel buio e scopro sedie rotte coperte di polvere. Alzo gli occhi: le finestre sono chiuse dai ponteggi e dalle fasciature. La Protezione Civile ha lavorato bene, ci dice la gente ha messo in sicurezza le case e trovato una sistemazione a tutti - o quasi. La gestione dell'emergenza è stata buona, non c'è da lamentarsi, ma la gestione del post emergenza non c'è. L'Aquila è una città abbandonata e transennata, zona d'emergenza, disastrata, sottratta a ogni potere che non sia quello della PC: è possibile ricostruire l'Aquila? La Stefania Pezzopane dice che ha sentito degli esperti - non aquilani - dire che la ricostruzione della città è fuori discussione, è una questione troppo impegnativa e richiede uno sforzo che nessuno vuole fare. Ma chi si assume la responsabilità di dire "iniziamo la ricostruzione" o "abbandoniamo la città e ricostruiamola a tot chilometri"? Il governo? La PC? Il Comune? La Regione?
Quello che ti dà di più le dimensioni del disastro non è il vuoto dove dovrebbero esserci le case, o i frontoni delle chiese crollati, o i contanier per portare via le macerie: è il silenzio e l'abbandono. Prima c'erano cinquantamila persone, ora siamo noi e un cane. L'edera invade i giardini, ci sono dei panni stesi a un terrazzo, grigi e strappati; comincia a fare buio, e Marco mi indica una vetrina: è un ufficio delle Poste, dentro ci sono le luci accese. Probabilmente uno dei vigili del fuoco è entrato e poi ha dimenticato di spengerle, ma è inquietante, in una città di fantasmi. In mezzo alla strada c'è un grosso pezzo di cemento armato con delle tegole sopra. E' caduto dal condominio di fronte: il resto del tetto pende nel vuoto, attaccato a brandelli di ferro.
Quando restituiamo gli elmetti il vigile del fuoco li raccoglie spazientito, e ci dice che gli abbiamo fatto fare tardi. Elle offre una bottiglietta d'acqua a Patrizia che ha parlato tutto il pomeriggio. Qualcuno le chiede perché su una delle transenne ci sono degli straccetti verdi e neri. Sono i colori della città, uno straccetto per ogni morto del terremoto, non possiamo fare altri monumenti, ci dice.
In piazzetta, fuori dalla zona rossa, c'è un bar aperto. E' l'ora dell'aperitivo, e c'è un gruppo che suona. Alessio riconosce il tastierista e lo saluta, l'altro gli risponde con un sorriso sorpreso. L'Aquila è una città disabitata, ma gli aquilani ci vengono lo stesso il sabato sera, per fare due passi.
Anche se sono sfollati.

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