venerdì, dicembre 31, 2010

La linea d'ombra

Per quanto ne sapeva
il sole era lo stesso,
su tutti i paesi.

Per un po' - non so quanto - questo post sarà l'ultimo.
Intendiamoci: mica voglio chiudere il blog (sarebbe come condannare a morte un moribondo), ma mi trovo in una situazione particolare - che tra un attimo vi spiegherò - che mi impedirà di garantire aggiornamenti frequenti.
Quanto la fai lunga.
Giusto, certo, hai ragione, giusto. Insomma, domenica io e Elle lasciamo la tana che ci ha accolti e nascosti negli ultimi tre anni e ci trasferiamo per tre giorni ove la connessione non è disponibile. Scarichiamo mobili, scatole, libri e minutaglie e archiviamo il tutto.
Stai facendo tutta 'sta lagna perché starai tre giorni senza internet? Sei ufficialmente la persona più noiosa DEL MONDO.
Quindi, il cinque gennaio prendiamo un aeroplano (ho sempre dubbi su come si scrive: aeroplano? Aereoplano? Areoplano? E aeroporto? E connissicciata? Avrò mai una connissicciata? Ma soprattutto: cos'è una connissicciata?) (poche ore dopo, il post appariva come unico risultato alla ricerca "connissicciata" su Google, lasciando tutti i lettori col dubbio sul significato della parola in oggetto).
Insomma, prendiamo questo aeroplano e ci dirigiamo verso la perfida Albione, ove rimarremo per un periodo di tempo ancora non quantificabile, ma probabilmente, se tutto va bene, non inferiore ai due anni (Dio, è un'eternità. Come farò due anni senza bidet?).
Ora, io lo so che anche in UK esiste la connessione internet, e non è che laggiù le mie password saranno invalide. E' che probabilmente (ma poi chissà) non avrò - almeno all'inizio - tempo, voglia e testa per scrivere nuovi post.
Poi chissà, magari il Blog Ottuso si trasformerà in una sorta di diario dell'espatriato, e mi deriderete mentre vi racconto dei miei drammi senza bidet.
Insomma amici, oggi si chiude col 2010 e si inaugura un 2011 dalle grandi avventure. Auguratemi qualcosa di positivo, mentre mi imbarco verso le terre inesplorate e incivilizzate oltre la Manica, armato solo della mia arguzia e del mio bidet da viaggio.
Mi mancherete tutti, e io spero di mancare a voi.
Buon anno!

Ps: poi, oh, magari scrivo più di prima, che ne so come vanno le cose.

venerdì, dicembre 24, 2010

O è Natale tutti i giorni

Lo so che pensavate fossi morto, ma niente di tutto questo: ero solo caduto in un pozzo artesiano dove sono rimasto per tre settimane prima che al lavoro si accorgessero che mancavo.
Bòn, sta di fatto che mentre ero sul fondo del pozzo, buio ed umido, a riflettere su quanto quell'ambiente somigliasse a casa mia in termini di oscurità e umidità, sono stato contattato tramite piccione viaggiatore da gb (minuscolo) che mi ha chieste se, mentre che ero lì sul fondo, non mi venisse lo scrupolo di produrre qualcosa di consistente e profumato per Lacollanadellaregina (tutto attaccato). Io gli ho detto di sì e gli ho dato il mio prodotto, ma lui mi ha risposto che intendeva un racconto, e che gli accenni a consistenza e profumo erano puramente metaforici.
E allora io ho scritto questo.
Buon Natale a tutti!
PS: attenti ai pozzi artesiani, essi sono malvagi.

domenica, novembre 21, 2010

Venite all'Aquila - parte due

Il presidente inaugura le case, consegna le chiavi, sorride e scherza dicendo che ci verrebbe volentieri a stare lui, se potesse dedicarsi a vita contemplativa. Bruno Vespa e le telecamere lo seguono, lo accompagnano all'auto mentre la folla lo saluta. Trenta metri più in là, le ruspe sono ferme e spente per non disturbare.

Onna è un disastro a cielo aperto, la distruzione è totale: le abitazioni sono tutte distrutte o seriamente danneggiate. I morti sono 49 su un totale di poco più di 300 abitanti.
Una signora vestita di nero spazza le foglie secche davanti alla sua nuova casa. Ci dice che le case sono belle e ci si trova bene, c'è anche il giardino, ma le nostre case non ci sono più. Indica un punto al di là del cantiere che separa la nuova Onna dalla vecchia. Almeno noi siam rimasti vivi, e ricomincia a spazzare le foglie.
Per entrare nella zona rossa non servono i caschi protettivi; le recinzioni sono meno opprimenti di quelle dell'Aquila, e si capisce il perchè: tutto è distrutto, non c'è nessun rischio che ti cada una grondaia addosso. Ci accompagnano tre persone, credo siano della Pro loco di Onna, ma non sono sicuro, arrivo stordito e all'inizio non capisco le parole. Le case sono aperte come cadaveri in sala autopsie, ti mostrano l'intimità che conservavano. E' questa la pornografia? Mostrare ciò che dovrebbe essere nascosto? Che ci faccio qui con la macchina fotografica in mano? Fotografo un frigorifero sventrato, un mobile rovesciato, due damigiane ricoperte di mattoni. Fotografo la carta da parati esposta al vento, le finestre che incorniciano il cielo, i termosifoni attaccati ai muri come piante d'edera, i televisori sfondati, gli attaccapanni, i citofoni. Su un cortile si affacciano i resti di una casa, le mattonelle del bagno ancora attaccate, rosa salmone, in alto lo scarico del water. il resto non c'è più. Avevo fatto una foto ad una bambola, ma non la ritrovo più.
I nostri accompagnatori ci portano in giro nel labirinto di strade tutte uguali che è diventata Onna. Quando crolla tutto, come fai coi punti di riferimento? Come ti orienti? Le ruspe scavano un sentiero tra le macerie, trovano una strada dove la strada dovrebbe esserci, togliamo le case e sotto dovrebbe, credo, esserci una via. Ricostruire i sentieri scavando.
Nel maggio del 1944 i tedeschi abbandonano la linea Gustav e si muovono verso nord. Mentre si ritirano, le SS entrano a Onna e uccidono 17 persone per una qualche rappresaglia.
Al confine tra le due Onna c'è un edificio in vetro e cemento armato; contiene un auditorium per le riunioni e diverse sale destinate alle associazioni cittadine. L'ha costruita l'ambasciata tedesca in Italia, non come simbolo di riparazione per la strage del '44, ma come gesto di aiuto. Ha le finestre grandi, ed è pieno di luce.

La new town ha strade larghe e piste ciclabili, giardini curati. I prefabbricati sono stati costruiti dalla Croce Rossa con il finanziamento della provincia di Trento, seguendo le indicazioni dei cittadini su come gestire gli spazi e l'assegnazione delle case, in modo da ricreare lo stesso vicinato di prima. I miei cugini hanno un campeggio a Firenze; non amano molto le tende, prediligono quelle che chiamano case mobili, dei prefabbricati su ruote. La new town mi ricorda il campeggio in modo inquietante. Le case, mi dicono, sono state donate al Comune. A Gennaio il Comune comincerà a chiedere il pagamento dell'affitto agli abitanti, perché non ce la fa più a pagare gli oneri di gestione. Mentre mi raccontano questo, si affianca un'auto. Si abbassa il finestrino e si affaccia un uomo che mi guarda la macchina fotografica. Chiama il nostro accompagnatore e gli dice che deve raccontare tutto, che quando torniamo a casa dobbiamo sapere tutto e dirlo a tutti, tutti devono sapere la verità. L'altro ride e lo saluta.

Villa Sant'Angelo è vicina ad Onna. Ci accompagna una ragazza sui vent'anni. Qui non andiamo alla new town, restiamo in piazza grande a guardare quel che resta: transenne e macerie. Il cielo è cupo, stormi d'uccelli volano sopra gli alberi, tre cani ci accompagnano per il paese, giocano nelle macerie, uno mi sa che si è fatto una specie di tana sotto le travi di una casa crollata, per ripararsi la notte. La ragazza - come si chiamava? - dice che i giovani non hanno più un posto dove ritrovarsi, usano una casetta di legno come punto di ritrovo la sera, per chiacchierare un po', bersi un the. Lo dice due o tre volte, bersi un the, come se fosse un gesto di pace tanto desiderato.

In autobus tengo la macchina fotografica in mano - non l'ho mai mollata, ma mi sembra che scotti. Scelgo la profondità di campo, regolo i tempi, fuoco manuale, funzione VR attivata, scelgo gli ASA, dimensione del file, esposizione, saturazione. Fotografo macerie. Fotografo cimiteri. A che serve?
Nel viaggio di ritorno Andrea ci passa una cosa da leggere. Io la passo a voi.

Venite all'Aquila.

Le foto di Onna e Villa Sant'Angelo
Il sito del comitato 3e32
Il blog di Miss Kappa

martedì, novembre 16, 2010

Venite all'Aquila - parte uno

Patrizia ci indica le transenne che bloccano l'accesso agli edifici ai lati di corso Vittorio Emanuele. Ha legato alle reti delle buste di plastica con dentro le foto dei negozi del centro ancora chiusi. Le ha stampate lei, con la sua stampante: la pioggia entra nelle buste e le cancella, portandosi via l'inchiostro. "Non sapevo che altro fare, la gente passa di qui, vede i palazzi ancora in piedi e pensa che i danni sono pochi. Non si accorge che i negozi sono tutti chiusi, che la città è deserta".
Più avanti un palazzo antico, con un grande portico chiuso da colonne; "qui ogni colonna era un punto di ritrovo. Si diceva ci vediamo alla colonna e ognuno sapeva quale era la sua. Ora sono inaccessibili. Lì" e indica un capannino in lamiera "c'era un'edicola. Su questa strada ce n'erano tre. Non avete idea di quanto fosse viva questa città".
Entrare all'Aquila non dà le dimensioni del disastro. La città ti accoglie offrendo dosi omeopatiche di rovine: una crepa su una facciata, qualche mattone caduto, una breccia che si affaccia sul buio di un appartamento. Forse in questo modo il disastro sembra meno incombente, se i danni li scopri lentamente. I palazzi del centro sono fasciati - come quando ti fratturi un osso - e scopri che le fasciature servono a tenerli insieme, a evitare che si spancino. Ci sono palazzi quasi senza danni, solo con qualche danno sul tetto. Ma il centro è inaccessibile, nella zona rossa non si possono fare lavori di ristrutturazione, quindi il buco nel tetto rimane. Così ci piove dentro, l'acqua infiltra i muri interni e quando arriva l'inverno - l'Aquila è una delle città più fredde d'Europa - l'acqua infiltrata si congela e spacca le mura, le case si rompono, gli edifici si spanciano.
Anche questi sono i danni del terremoto.
Prima di entrare nella zona rossa dobbiamo indossare i caschetti protettivi. Di fronte al prefabbricato dove ce li consegnano c'è un palazzo completamente ricoperto di ponteggi. Uno dei nostri accompagnatori ci dice che la Protezione Civile paga il noleggio di queste strutture a 18 euro a nodo. Guardo: sembrano milioni. Il noleggio viene pagato a una società di proprietà della Marcegaglia, mi dice, è stato messo su due giorni dopo il terremoto, ma non serve a niente: di là del muro non c'è niente, è crollato tutto.
Un cane ci accompagna nella zona rossa, sta con noi tutto il tempo. Non abbaia mai, non scodinzola, non ringhia, non ti viene incontro a prendersi le carezze. Cammina con noi, e basta.
Le strade si confondono, non distinguo più le piazze. Adesso, davanti al computer, apro Google Maps per capire che strade abbiamo percorso, e su Street View tutto è bloccato al prima del terremoto: le strade sono aperte, i palazzi interi, le persone entrano ed escono dalle case.
Non ci sono macerie all'Aquila: i palazzi - davvero - sono in piedi, molti edifici sono rimasti su. Ma sono tutti - tutti - danneggiati. Le porte sono aperte, mi affaccio a guardare nel buio e scopro sedie rotte coperte di polvere. Alzo gli occhi: le finestre sono chiuse dai ponteggi e dalle fasciature. La Protezione Civile ha lavorato bene, ci dice la gente ha messo in sicurezza le case e trovato una sistemazione a tutti - o quasi. La gestione dell'emergenza è stata buona, non c'è da lamentarsi, ma la gestione del post emergenza non c'è. L'Aquila è una città abbandonata e transennata, zona d'emergenza, disastrata, sottratta a ogni potere che non sia quello della PC: è possibile ricostruire l'Aquila? La Stefania Pezzopane dice che ha sentito degli esperti - non aquilani - dire che la ricostruzione della città è fuori discussione, è una questione troppo impegnativa e richiede uno sforzo che nessuno vuole fare. Ma chi si assume la responsabilità di dire "iniziamo la ricostruzione" o "abbandoniamo la città e ricostruiamola a tot chilometri"? Il governo? La PC? Il Comune? La Regione?
Quello che ti dà di più le dimensioni del disastro non è il vuoto dove dovrebbero esserci le case, o i frontoni delle chiese crollati, o i contanier per portare via le macerie: è il silenzio e l'abbandono. Prima c'erano cinquantamila persone, ora siamo noi e un cane. L'edera invade i giardini, ci sono dei panni stesi a un terrazzo, grigi e strappati; comincia a fare buio, e Marco mi indica una vetrina: è un ufficio delle Poste, dentro ci sono le luci accese. Probabilmente uno dei vigili del fuoco è entrato e poi ha dimenticato di spengerle, ma è inquietante, in una città di fantasmi. In mezzo alla strada c'è un grosso pezzo di cemento armato con delle tegole sopra. E' caduto dal condominio di fronte: il resto del tetto pende nel vuoto, attaccato a brandelli di ferro.
Quando restituiamo gli elmetti il vigile del fuoco li raccoglie spazientito, e ci dice che gli abbiamo fatto fare tardi. Elle offre una bottiglietta d'acqua a Patrizia che ha parlato tutto il pomeriggio. Qualcuno le chiede perché su una delle transenne ci sono degli straccetti verdi e neri. Sono i colori della città, uno straccetto per ogni morto del terremoto, non possiamo fare altri monumenti, ci dice.
In piazzetta, fuori dalla zona rossa, c'è un bar aperto. E' l'ora dell'aperitivo, e c'è un gruppo che suona. Alessio riconosce il tastierista e lo saluta, l'altro gli risponde con un sorriso sorpreso. L'Aquila è una città disabitata, ma gli aquilani ci vengono lo stesso il sabato sera, per fare due passi.
Anche se sono sfollati.

giovedì, ottobre 14, 2010

Mezza paginetta

Per una qualche strana ragione difficile da spiegare, quello che tutti, amici, parenti, semplici conoscenti, consideravano il "fidanzato storico" di Silvia non era quello con cui aveva avuto la relazione più lunga, o la più burrascosa o la più rumorosa. In genere quando si trovava a parlare di uno qualunque dei suoi ex, doveva sempre dedicare una buona parte della conversazione ad una introduzione di specifica, cercando di farne balenare il ricordo usando qualche caratteristica saliente che lo identificava univocamente: il compagno di scuola con la frangetta, l'egiziano del kebab, lo studente di archeologia di Bologna, il sardo, quello sposato con due figlie grandi, il maniaco dei piedi, lo spagnolo che la tradiva, quello noioso di Cremona, il tizio con un braccio solo.

Di Raul invece doveva solo dire il nome, che tutti e tutte improvvisamente capivano e ricordavano, e i loro volti si illuminavano di un sorriso. Perché ogni persona a cui lo presentava, in un modo o in un altro, se ne innamorava: la sua innocenza, l'innata simpatia, la disponibilità, la luminosa e calorosa semplicità dei suoi gesti, lo rendevano benvoluto in qualsiasi contesto. Le amiche di Silvia lo prendevano sottobraccio, senza però - strano a dirsi - desiderarlo, ma solo per il bisogno naturale di averlo vicino, e gli amici lo accoglievano nel loro gruppo, altrimenti ben chiuso, con una naturalezza che ti avrebbe stupito, se non fossi stato tu stesso vittima di quel sortilegio. Raul era l'amico ideale, il confidente di tutti, il (appunto) fidanzato storico di Silvia, quello che nessuno dimenticava.
Silvia era l'unica a vedere questa malìa? Era l'unica a non cadere vittima di questo sortilegio, l'unica immune alla luce di Raul? Raul le piaceva, certo, ma da qui a cedergli tutti i suoi amici ce ne correva. Raul le voleva bene, era sollecito ed attento, e non la deludeva mai anzi, a volte anticipava le sue idee e i suoi desideri.
Era perfetto.
E a dirla tutta, cominciava a starle un po' sul cazzo.

Così quando lui dovette trasferirsi per qualche mese a studiare a Toronto, a Silvia sembrò naturale cercare di conquistarsi un po' di spazio autonomo, e lo convinse (lei a lui) a trasformare la loro storia (che dopo dodici mesi stava per diventare una relazione) in un rapporto sospeso, da riprendere al suo ritorno (forse, aggiungeva Silvia nella sua mente).
Raul, a malincuore, accettò, e al momento di salire sull'aereo, la salutò piangendo. Silvia sorrideva e lo salutava raggiante, agitando il fazzoletto e dicendogli che era il solito esagerato.

Ora, dopo anni, ora che è di nuovo sola, ora che su Facebook scopre che Raul a Toronto ha una bambina di quasi cinque anni, ora che i suoi amici a volte non la richiamano quando li cerca, ora che tra poco deve uscire per andare a cena con i colleghi, ora Silvia si domanda che cos'era quella libertà che voleva conquistarsi allora, e come si rimuovono i ricordi dei fidanzati storici, qualunque cosa siano.

giovedì, ottobre 07, 2010

L'ultimo post

Miei amati.
Nella storia delle storie, giunge sempre il capitolo finale.
Questa settimana ho letto l'ultimo numero di Magico Vento, fumetto amato se mai ve ne furono. Tra gli snob di Slowcomix è lo sport dell'anno, quello di dileggiarmi per l'amor che nutro per questa forma di intrattenimento popolano, mi si chiedono giustificazioni, spiegazioni, motivazioni, e tutte l'altre cose che finiscono in -zioni. Ma come si fa, mi dico nelle notti insonni, spiegare un sentimento d'affetto sì radicato e profondo da non poter essere estratto, se non a costo di estirparmi il cuore?
Come si fa, a dare forma a qualcosa che forma non ha, ma è solo un moto oscuro nel profondo delle viscere? L'amor per quello che non è bello, non è affascinante, non è elegante, ma è vicino.

E come per Magico Vento, la fine della pista esiste per molte, molte altre cose.
Anche i blog.

Scrivere è un processo che richiede impegno, dedizione e cura.
E anche quando queste ci sono, può comunque succedere che manchi qualcos'altro.
Oppure, semplicemente, si è arrivati alla fine del racconto, alla conclusione, alla fine della pista.
Insomma, per non tirarla troppo in lungo, che poi mi commuovo...
...
...
... Giangi ha scritto l'ultimo post del Giustificato motivo (pare).
Eccolo qui!
Salutatelo con una visita e un commento, ma non troppi, che sennò poi mi si emoziona.

PS: Che avevate capito?

giovedì, settembre 30, 2010

Adoro i post celebrativi

Quattro anni scivolati in fretta e tu
mi piaci come sempre
forse anche di più

Ho messo in citazione una canzone dei Led Zeppelin di Raf perché Testadilegno Antonacci non ha mai scritto (o meglio, non sono interessato a sapere se lo ha fatto) dei versi potenzialmente utilizzabili per celebrare quattro anni di attività bloggante (quale può essere l'aggettivo giusto? Bloggativa? Bloggatrice? Blogastica? Blogofila? Non sempra una cosa brutta la blogofilia?).
Certo, magari prendendo una canzone a caso cercando tra la sterminata fogna produzione musicale di Testadilegno qualcosa avrei potuto trovare, ma la canzone dei Queen di Raf era più immediata, me la ricordavo meglio, perché purtroppo le cose brutte tendono ad entrare e non uscire mai più dalla mente, funziona anche con le immagini generate leggendo un testo, nel senso che se descrivo qualcosa voi tendete a visualizzarlo nella vostra mente, e più sarà una cosa brutta più sarà difficile abbandonarla, lo scoprirete anche voi quando leggerete Giuliano Ferrara nudo che si spalma del miele sull'addome peloso.
Visto?
Questo, questa graziosa e persistente immagine, era il mio regalo a voi amati lettori per avermi scoperto, seguito, abbandonato e scoperto di nuovo in questi quattro anni; rimanete sintonizzati, che di immagini come queste ve ne elargirò in abbondanza nei prossimi anni.
Perché vi amo.

PS: e pensare che se non era per Weltall, me ne scordavo pure, pensa come sto messo.

PPS: per aiutarvi a superare il difficile momento legato alla lettura di questo post (Raf, Antonacci e Ferrara, tutti insieme in poche righe), vi lascio con il sorriso di Walter Matthau.


PPPS: Giuliano Ferrara nudo che si spalma del miele sull'addome peloso.

domenica, settembre 19, 2010

Nel frattempo, sulla terra parallela 467...

Quest'estate, mentre attraverso la stazione ferroviaria, incrocio un ragazzo. Lo vedo dirigersi alla biglietteria del parcheggio sotterraneo e, ignorando il cartello NON VENDIAMO BIGLIETTI DEL TRENO, andare da un addetto e fare:
GIUOVINE: Un biglietto per Lucca.
ADDETTO: No.
GIUOVINE: Ma a me mi serve. Fammi un biglietto per Lucca.
ADDETTO: No.
GIUOVINE: Perché no?
ADDETTO: Devi andare alla stazione centrale per farti fare il biglietto.
GIUOVINE: Alla centrale? Ma ti pare una cosa normale? No te dimmi se ti pare una cosa normale, dimmelo. Ti pare una cosa normale che devo andare alla stazione centrale a fare un biglietto per Lucca? No, dimmi te. Dimmelo.
ADDETTO: Non te lo fo il biglietto per Lucca.
GIUOVINE: E' un paese di merda, siete della gente di merda, siete tutti prevenuti con me, ti pare una cosa normale?
ADDETTO (uscendo dalla guardiola): la finisci?
GIUOVINE: Lo vedi che fra me e te c'è disaccordo?
Non mi sto inventando niente, lo giuro, come non mi invento che poi il giovane si avvicina a una ragazza alla biglietteria automatica e fa:
GIUOVINE: Che m'aiuteresti a fare il biglietto.
RAGAZZA: Basta leggere le istruzioni.
GIUOVINE: Eh, ma mica è facile.

Stravolto dalle fatiche dell'estate, mi dirigo verso luoghi più ameni di Città Cupa. Così, sdraiato sul lettino a bordo piscina, il mio corpicino cosparso di crema solare che ha efficacemente attuato una protezione (sono più bianco che pria), mentre leggiucchio un Urania del 1976 comprato a un euro a una bancarella dell'usato, capto la seguente conversazione.
LUI (ventitreenne, abbronzato, capelli rasati a un cm, orologio d'acciaio al polso, costume D&G, tatuaggio tribale sulla spalla, voce arrochita dal fumo): Oh, bada chi ccè. Allora, icché ttu fai?
LEI (ventenne esile, capello biondo mechato, bikini giallo D&G, catenina d'oro, tatuaggetto tribale alla caviglia, voce arrochita dal fumo): Mah, son qui con la Vale, si piglia un po' di sole. O te?
LUI: Son con Damiano e i'Pala, siamo un po' a ripigliacci, ieri s'è fatto le cinque a i' Twiga, a bere moiiito (dice così).
LEI: Le cinque? O che siehe grulli? E vi fa male bere così.
LUI: Sta zitta, e divento un'arcolizzato se seguito a questa maniera, c'ho la donna la mi fa bere come un disperato.
LEI (improvvisamente intenerita): c'hai la ragazza?
LUI: Bah, l'è un'amica della ragazza de' Pala, di Bergamo, l'ho conosciuta, dopo du' ore la mi s'è attaccaha la un si staccaha più, a un certo punto la mi fa: oh, io piglio la pillola. Una la mi dice a questa maniera, un lo levo neanche se la si sposta. AHAHAHA!
LEI: Ahahaha (estasiata).
LUI: No, a parte le cazzate, ci si trova proprio bene, siamo dimorto in sintonia.
LEI: Davvero? Tipo?
LUI: Bah, ci garba le marche a tutt'eddue, Cavalli, Burberry, D&G, Luissvittòn, Prada, le cinture di Gucci, gl'ho regalaho la borsa di Fendi. Guarda, si va dimorto in sintonia.
LEI: Ganzo. Senti, ma tu ha detto che gli garba bere?
LUI: Bere?! Gli garba ma ribere (ride)! Ma lassù tutti, eh, moiiiito, grappa, birre in continuazione, lei l'è sempre a bere, anche se l'ha diciassettanni la beve più di me, la piglia quarche pasticca ogni tanto anche, ma più che artro la beve. Guarda, ierl'attro siamo andaaa a ballare, ho speso settanta euro pe' bere.
LEI: Dai. Ci si fa un birrino?
LUI: Vai.
Mi sanguinano le orecchie.

martedì, settembre 14, 2010

Intra coche y anden

Volare in Ryanair è un’esperienza didattica, nel senso che si impara sempre qualcosa. Siccome sono anni che ci viaggio (cominciai nel 2001, un volo della speranza verso Londra insieme a Giangi, che mi diceva che il motivo per cui i voli costavano poco era che gli aerei cadevano) oramai ho imparato talmente tanto che ho raggiungo la qualifica di docente – o guru, non ho ancora capito la differenza, ma non me ne guru (ahah, che sagoma).
Ma veniamo a noi.

IL CHECK-IN ONLINE
La Ryanair è una compagnia low-cost perché ha una politica low-budget o, come altri la definisce, da barboni. Per farti costare poco il biglietto devono ridurre i costi. Si tagliano i costi del personale di terra: via le biglietterie (si compra su infernet) e via il check-in. All’inizio pensi sia un vantaggio: non devi presentarti al check-in due ore prima del decollo, ma ti limiti a farlo on-line. Ne approfitti per dormire di più (tipo due ore). Ma cominciano i problemi: per fare il check-in hai una finestra temporale ben precisa, a ridosso del volo. Così qualche giorno prima ti metti lì buono buono davanti al tuo computerino a compilare tutti i form, quando ti viene chiesto il numero del passaporto.
Vai a cercarlo e non lo trovi.
Dopo quaranta minuti rinunci e usi la carta d’identità.
Che è scaduta.
Va be’, la patente.
Non è un documento valido.
Il passaporto, dai.
Non lo trovo.
Meglio cercare di nuovo.
Ho detto che non lo trovoooo, cosa sono, idiota?
Voglio litigare? Non c’è mica bisogno di offendere. E poi, guardo che mi devo dare una mossa, il check-in on line può essere effettuato in una finestra temporale ben precisa.
Si, fino a quattro ore prima del volo.
Esatto.
Mancano cinque giorni al decollo.
Appunto, diamoci una mossa, voglio?
Sono un idiota.
La vogliamo smettere di offendere?
Vado in Comune a rifare il documento.
Ahah, buona permanenza in Italia.

BAGAGLIO A MANO
All’inizio 10 kg ti sembrano un’esagerazione. “Dieci chili? E che devo portare, mattoni? Con un paio di magliette e due mutande sono a posto”. Un paio di magliette, due mutande, tre jeans, camicie, felpe, spazzolino, dentifricio, shampoo, ciabatte, scarpe di ricambio,il phon, un paio di libri, calzini, la macchina fotografica e gli indispensabili cerotti per la respirazione notturna dopo, capisci che dieci chili sono una misura ottimistica. Togli un paio di pantaloni e una felpa, scambi un libro con uno più piccolo, ti metti la nikon a tracolla e ripesi il tutto. Dieci chili e novecento. Lasci un paio di scarpe di ricambio. Dieci chili e duecento. Lasci il phon, ti asciugherai i capelli al sole. Nove chili e cinquecento. Ottimo, ci sta pure un Urania da comprare in aeroporto.
All’accettazione ti pesano lo zaino (tu sorridi compiaciuto). Poi lo misurano altezza larghezza profondità. “Signore, la sua borsa eccede le misure massime. Non possiamo lasciargliela portare in cabina, a meno che non ne riduca in qualche modo la larghezza”. Panico. Svuoti le tasche laterali (tra dieci minuti aprono l’imbarco), togli le cose che c’hai stipato cercando di usare discrezione (ti cadono sul pavimento, tutti scoprono che compri le mutande alla coop), le sposti nella tasca superiore. Hai riempito lo zaino con metodicità da giocatore di tetris, adesso strappi fuori le camicie con la furia del disperato e le sposti altrove appallandole. Ti restano fuori due magliette. Fanculo, pensi, tanto sono vecchie, e le butti nella monnezza. Misuri lo zaino e adesso va bene. Vai all’imbarco, ti passano il bagaglio nello scanner. Quando esce arriva una ragazzina in divisa e prende il sacchettino dove hai messo i liquidi. Tira fuori la bottiglietta di shampoo e la butta nella monnezza.
“Guardi che non si possono portare a bordo liquidi superiori a…”
“L’AVEVO DIMENTICAAARRR!!!”
Va be’, tanto non avevo nemmeno il phon.

SALIRE A BORDO
Passato l’imbarco (con le sempre cortesi hostess di terra di Ryanair, in perenne sindrome premestruale) scatta il pronti-via. Corri verso l’aereo con tutta la forza delle tue zampine, per riuscire a salire a bordo prima della vecchia davanti a te.
Ok, la vecchia è andata, cerca però di salire prima del tizio con le stampelle. Quanto può andare veloce uno con le stampelle?
Va bene, lasciamo perdere. Il bradipo, supera il bradipo almeno!
Come era lecito aspettarsi, sali a bordo per ultimo, quindi non ti tocca il posto al finestrino, né il posto sul corridoio, ma il posto centrale. Tra due ciccioni sudati. Che odorano di soffritto di cipolla. E che non smetteranno un attimo di parlarsi tra di loro, sputacchiando da orribili fessure tra i denti (avevo menzionato i denti gialli?). Ma tu resisterai, cercando di dormire. O almeno, ci proverai fino al momento in cui il tuo vicino di sinistra si toglierà le scarpe, subito imitato da quello di destra. Come è lecito aspettarsi, nessuno di loro indossa i calzini.

LA POLITICA DI BORDO RIGUARDO L’ACQUISTO COMPULSIVO
Una cosa che mi stupisce ogni volta di più dei voli Ryanair è l’insopprimibile capacità del management di Dublino di inventarsi sempre nuove fonti di approvvigionamento di vil danaro.
Cose che puoi acquistare a bordo di un volo Ryanair:
- panini caldi
- panini freddi
- panini tiepidi
- toast
- frutta fresca
- caffè
- thè
- succo di frutta (arancia, pesca, pera, ananas, tamarindo)
- patatine fritte
- cioccolata calda
- chili con carne
- trippa
- chili con trippa
- frutta calda
- macedonia di panini
- lassativi
- un modellino giocattolo dell’aereo sul quale stai volando, che se guardi dentro i finestrini puoi vedere te stesso stretto tra due ciccioni scalzi mentre le hostess ti suggeriscono di comprare un modellino dell’aereo sul quale stai volando, che se guardi dentro puoi vedere te stesso che ti mandi affanculo.
- biglietti dell’autobus per raggiungere la città nella quale stai atterrando.
Questa è una finezza: “ecco il suo biglietto per Londra. In realtà la lasceremo a circa trecento chilometri dalla periferia di Manchester, ma può prendere il nostro autobus per raggiungere la sua destinazione”. Un’ora di volo, tre ore di autobus . Adoro la Ryanair.
- gratta e vinci. Non sto scherzando.

ATTERRARE CON RYANAIR
Fino a due settimane fa credevo che l’unica (e sottolineo l’unica) cosa più ridicola delle hostess e degli steward che ballettano goffamente per spiegarti dove sono le uscite di emergenza e come si gonfia un safety vest (a proposito, ancora non ho capito 1 – dove si trova 2 – come si gonfia 3 – che me ne faccio se precipito su una montagna), dicevo, l’unica cosa più ridicola fosse l’applauso alla fine dell’atterraggio. Bene, alla fine dell’atterraggio, un attimo prima che la signora pesantemente truccata della terza fila inizi a battere le mani al pilota, parte un jingle musicale che festeggia l’atterraggio. Grazie Ryanair, per avere aggiunto ancora più motivi di imbarazzo a questo già imbarazzante viaggio.

PROSSIMAMENTE
- Quello che dicono veramente i foglietti di istruzioni per la sicurezza sugli aerei Ryanair.
- Le grandi domande: ma se uno ha il mal d’aereo, il sacchetto per il vomito se lo deve portare da casa?
- Fare pipì durante un vuoto d’aria: questa suoi miei pantaloni è solo acqua.

venerdì, agosto 20, 2010

Il mondo, dopo la fine del mondo

Probabilmente esiste solo nella mia testa una comunità di lettori affezionati che si domanda quotidianamente la causa della spaventevole carenza di contenuti aggiornati qui, sul blog.
E altrettanto probabilmente quei pochi si saranno convinti che il problema risieda nella scarsa vena del suo autore, o in una stanchezza diffusa relativa al generare contenuto interessante (se mai se ne è generato), oppure, magari, nell'intuizione di un desiderio, anche troppe volte espresso, di chiudere baracca e andare a pescare (non so pescare).
Forse per chiarire bisognerebbe andare di nuovo (ignoro quanti l'abbiano mai fatto) a ripescare quel primo post, nel quale dicevo che mi ero fatto il blog perché mi annoiavo. Il che era, fuor di metafora, vero.
Il fatto è che il blog nasce come sfogatoio, non a una creatività inespressa (sì, anche a quella, ma non principalmente), quanto a una deboscia umana incontrollabile: lavoro noioso, ripetitivo, con ampie pause di inattività. Scarsa interazione con i colleghi, ambiente deprimente, caffè pessimo: tutto contribuiva ad alimentare le inesauste fucine della creatività elettronica, e a trasformare l'evento di una giornata (il volo radente di una mosca impazzita, tipo) in una scoppiettante profuzione di battute e matte, matte risate.
Una specie di riscatto dalla grigia realtà del burocrate, diremmo.
In effetti, funzionava.
...
Ora, però, le cose enno cambiate.
Non faccio più quel lavoro, faccio altre cose, in posti diversi, insieme a persone diverse.
Cose un filo più stimolanti.
E, nonostante tutto, più impegnative.
Così finisce che lo sfogatoio della creatività segue altre strade, non sto più a guardare le crepe sul soffitto pensando che potrebbero diventare argomento di un post (per fortuna).
Poi.
Intendiamoci, il divertimento, la creatività, le uso ancora, non è che visto che il blog ha una paresi, allora anche il mio cervello ce l'ha.
Semplicemente, mi ci vuole più tempo, più convinzione.
...
Quando ero bambino ero un narratore instancabile. Ho realizzato intere saghe epiche utilizzando solo foglie, sassi e penne di gallina, con guerre, esplorazioni, quest, tutto il corollario dei giochi di ruolo (senza peraltro sapere cosa fosse un gioco di ruolo). Ero anche l'unico ascoltatore, fra l'altro, mancando spesso compagni di gioco ai quali comunicare l'esito della guerra tra le zucche e le viti per il possesso delle torri centrali.
Scrivevo anche, tanto. Ma temo di non aver conservato niente, a parte quaderni di scuola che poca utilità rivestiranno per gli studiosi della mia persona.
Poi, per anni, sono scomparso, senza sapere dov'ero finito. Che facevo? Con chi ero? A chi raccontavo le epiche battaglie del quadrato? I miei playmobil mi aspettavano nel sottotetto, ne sono certo, confidando in un mio ritorno, senza immaginare che avessi di meglio da fare.
Chissà cosa.
Temo di essermi perso un sacco di avventure.

Se me la passate, ora vorrei fare una cosa un po' ridicola: vorrei ringraziare il blog, che mi ha ritrovato la voglia di raccontare storie, e raccontarle prima di tutto a me stesso. Mi ha detto che era finita, questa voglia, sotto un mobile, o in fondo a un cassetto, o in un vecchio baule: ogni volta me la racconta diversa, mi sorride e mi chiede un post.
E io gli sorrido di rimando, e ne scrivo uno, perché non so negargli niente.
E poi non mi costa nulla.

lunedì, luglio 05, 2010

Malkuth

Se nessuno me lo domanda, lo so.
Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più.

Oggi pomeriggio ho incontrato Urakidany.
E' rientrato dal Jap la settimana scorsa, e per una serie mi ragioni che non sto ad argomentare non ci eravamo ancora incontrati, abbiamo rimediato oggi.
Ci siamo visti con praticamente i membri fondanti della nostra vecchia compagnia, gente che non vedevo da (quanto?) cinque-sei anni, e sembrava ieri, l'ultima volta che ci eravamo salutati.
Mau mi accoglie dicendo che c'è bisogno che qualcuno torni dal Jap, per potermi vedere, e Matteone mi stritola nel solito modo di sempre.
Ho avuto l'impressione che il tempo non fosse passato mai, e la sera in cui ci siamo salutati con un "ci sentiamo domani" durato sei anni, non fosse così lontana.
Urakidany, lo sapete, ha un figlio, e Matteone anche, e Mau due, e se Gabo non ne ha è solo perché non ne è convinto.
Stavamo insieme, in quell'epoche tempestose, per sorreggerci a vicenda, impedirci di cadere contro venti troppo forti. Di più: con la nostra amicizia ad intermittenza cercavamo di darci forma, come creta molle, dicendoci che non eravamo troppo sbagliati, e adesso lo riconosco, che non eravamo troppo sbagliati, e quel desiderio di abbracciarvi, amici miei, è solo per testimoniare che esistete, che non siete ragazzi immaginari, ma solidi e piantati in terra come alberi frondosi, dalle radici solide.
Questo passato che non passa io lo amo ancora, vederli invecchiati mi rende felice perché mi dice che se tutto passa e cambia, lo fa con la grazia che si deve alle cose fragili.

martedì, giugno 29, 2010

Er Manesse

Com'è come non è, io ogni volta che vado a Firenze pesto una merda.
Non quelle metaforiche, sia chiaro, che per quelle non c'ho bisogno di andare a Firenze, basta aprire bocca.
E invece a Firenze, per qualche caso del destino che non capisco, ogni volta che ci vado finisce che pesto un escremento (non metaforico). Ora, cosa questo significhi, è al di là della mia comprensione (ma d'altra parte, innumerevoli sono le cose al di là della mia compresione, tipo: perché le unghie delle mani crescono più velocemente di quelle dei piedi, che quelle delle mani le devo tagliare ogni dieci-dodici-quindici giorni, e quelle dei piedi non lo so, ogni volta il ricordo si cancella, quindi mi sa che arriva dal limbo degli eoni e non raggiunge il presente).
Con questo discorso sulle deiezioni che si concretizzano sotto la suola delle mie scarpe (per fortuna sono povero e le mie scarpe hanno sempre il battistrada consumato, sennò sai che disastro) (ad ogni modo non così povero da avere le suole bucate, sennò sai che tragedia), con questo discorso, dicevo, non voglio certo dire che la Città Cupa sia pulita: au contraire! Tanto che ieri uno dei (chiamiamoli così) vicini ha attaccato un foglio al muro di casa sua con scritto qualcosa tipo che al prossimo che gli lascia il sacchetto del rusco sotto la sua porta ci fa sparare.
Ora, la forma del messaggio può essere discutibile, ma il contenuto è certamente centrato, tanto che pure io avevo preparato un messaggio minaccioso e velatamente razzista contro "qualcuno" che lascia i sacchetti dell'indifferenziato sul marciapiedi, ma Elle me l'ha editato in un più politicamente corretto QUESTA NON E' UNA DISCARICA, che meno lascia all'immaginazione ma certo giova ai rapporti di buon (chiamiamolo così) vicinato.
(Ma tanto lo so che sei te che lasci il sacchetto, vecchia ciabatta. Se ti ci becco ti sfrangio, giuro)
Poi, il fatto che qualcuno abbia scritto a penna peccato sotto il mio QUESTA NON E' UNA DISCARICA, mi lascia perplesso, ma pare che la perplessità sia una caratteristica degli spiriti sapienti, quindi l'abbozzo lì.
Insomma, Città Cupa è sporca, razzista, violenta, aggressiva, proto-fascista e pseudo-comunista, insopportabile, culturalmente inetta e calda in maniera insopportabile, MA almeno non pesto una merda di cane ogni volta che faccio due passi.
O perlomeno, non quelle metaforiche.

mercoledì, giugno 16, 2010

E' MIA LA MAMMA!

E al dolce suono delle vuvuzela ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ
ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ
ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ
ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ si desta l'orgoglio della nazione.
A me i mondiali piacciono, perché è l'occasione per vedersi queste partite tipo Cipro-Sandokan, se mai Cipro e Sandokan fossero riuscite ad arrivare alla fase finale dei mondiali. E' un po' il mio sogno vedere giocare Cipro e Sandokan, e Cipro che vince con un rigore al 95° per fallo sul quarto uomo.
Ma ahimé.
La cosa che maggiormente apprezzo del calcio è l'idea che ventidue miliardari si sentano orgogliosi di correre in mutande su un prato, mentre sugli spalti migliaia di persone li insultano. E' un gioco meraviglioso, il golf.
Però sia ingiusto il pregiudizio che li vede come dei subumani arroganti e viziati incapaci di esprimersi che soffrono se ascoltano parole troppo lunghe. Sono creature del loro tempo, e siccome viviamo in un tempo di merda, finisce che, lo sapete.
Ma parliamo della nazionale. Lippi si è incaponito nel voler convocare mezza Juve - Alessio dice che lo fa perché a settembre lo chiamano a fare il general manager, e allora li vuole valorizzare per venderli meglio, tipo i prosciutti, ma meno scattanti. La conseguenza è che ti ritrovi a vedere in campo il reparto geriatrico dell'ospedale delle Molinette: il codino alopecico di Camoranesi, la lombosciatalgia di Cannavaro, la dentiera di Zambrotta. C'è anche un giovane della Juve, Marchisio, ma Lippi l'ha convocato perché pensava fosse Antonio Conte.
Intanto Antonio Cassano, il celebre antropomorfo di Bari vecchia, sta a casa augurando ogni male alla spedizione azzurra. Me lo immagino sul divano, a guardare le partite, mentre insulta Lippi. Poi si mangia una banana.

Ma sto facendo lo splendido: io i mondiali non li guardo. Non ce l'ho la televisione, ricordate? Ah ah, me la godo, ah ah, e chi se ne frega se mi perdo Cipro-Sandokan, tanto vincerà sandokan come al solito.
Però la partita con il Paraguay me la sono vista, e ho avuto un'epifania: quando è entrato Marchetti, il portiere di riserva, mi è sembrato che stesse uscendo Cannavaro. E ho pensato: guarda Lippi che furbone, ti gioca con due portieri, non me lo immaginavo così dadaista, vai che ora vinciamo, vai Lippi, vai, vai vai, adesso si che si gioca. E invece ha tolto Buffon che su era fatto male inciampando su un osso di formica e mi sono demoralizzato.

Sinceramente, come si fa a tifare Italia? Lippi, quel simpatico mattacchione, va in campo con un k-way della nazionale sopra la canottiera, ma si può? E i giocatori...Cannavaro, Buffon, Pazzini, Iaquianta, Criscito...fatemi un'endovena di cazzotti così svengo in fretta e non devo più soffrire. quindi, ho deciso: tifo Argentina.
Voglio dire, in panchina c'è Maradona. Maradona, dico. Maradona in giacca e cravatta. Col sigaro cubano. E la barba alla Fidel. Maradona. Quanti altri segni del destino vi servono, porca miseria, perché vi convertiate alla vera fede?

giovedì, giugno 03, 2010

Brucia, mio cielo

A voi, amati lettori, vi garbano i post sulle chiavi di ricerca.
A me invece, che sono un fine esteta e non un parvenue, mi garbano i poster demotivazionali.
Allora, visto che dobbiamo convivere in questo spazio ristretto che è il mondo, perché non cominciare a unire le nostre divergenze?
Eh?
No, non rispondete, tanto non mi interessa davvero la vostra opinione, era solo una domanda retorica.
Quindi ho creato per voi i Poster Ottusi, ovvero la risposta alle chiavi di ricerca in un pratico supporto demotivazionale!
(legenda: il testo grosso è la chiave di ricerca, quello piccino il mio arguto - ahi quanto! - commento alla medesima ricerca)
Enjoy!



















martedì, maggio 25, 2010

La prostata

Ieri ho compiuto 33 anni, età ragguardevole, ne convengo.
Obiettivo dell'anno partente oggi è scansar Golgoti, Barabbi e gran sacerdoti Caifa, che lo spirito del Messia, quello, io proprio non ce l'ho.
Una battuta che faccio spesso è che a 33 anni muoiono i giusti, tipo (pausa drammatica) John Beluschi, e qui o si ride o si invoca la scomunica, che nominare invano John Beluschi no.
Comunque, per chiarire che da queste parti si invecchia, stanotte mi sono alzato due volte, per orinare o urinare o mingere, e la seconda, avevo sonno, stavo pure per sedermi sulla ciambella ma mi sono trattenuto, no, mi son detto, in piedi resta, e falla tutta a schiena dritta. Poi mi son guardato nello specchio, a cercare i capelli bianchi. Che sono pochi, ma anche quelli neri cominciano a deperire, si va in piazza mi dice il Nipote, ma io lo dicevo a suo padre, ai tempi, quindi capisco.
Poi.
Tutti i giorni, ma sul serio, e anche più volte al giorno, ho dei grossi vuoti di memoria che...aspetta, che stavo dicendo? No, scherzo. Dicevo che...cosa? Ah ah, no sul serio, tutti i giorni e anche più volte al giorno io...
...
che cosa?
Insomma, mi vengono parecchi spunti per il blog, nuovi post a gogo, come ai tempi belli un post al giorno, scoppiettanti, ma poi arrivo davanti al computer e...di che stavo parlando? e allora vado su feisbùk, che si fa prima.
In sostanza mi rendo conto che questo blog sta un pochetto annoiando, ma d'altra parte sono una persona noiosa, con i suoi problemi senili: incontinenza, alopecia...qual'era l'altra? Quindi non si può mica pretendere che uno, oramai sulla via dell'ospizio, possa essere sempre vivo e frizzante come coso lì, come si chiama, dai, quello con...che faceva la...l'amico di...della...un...
E dai dai dai che anche questo post ce lo siamo portato a casa.

sabato, maggio 08, 2010

Il dio di mio padre

C'è un mio amico che dice che la speranza è un vuoto a rendere, un desiderio, un artefatto astratto che ci costruiamo per puro istinto di sopravvivenza. Dice, poi, che una generazione come la nostra, che ha completamente rinunciato ai propri diritti non ha molte possibilità di sopravvivenza, siamo come scimmie nella savana, se resti in gruppo ti puoi salvare, ma quando ti allontani da solo i leoni ti vedono, e ti divorano.
Dice un sacco di cose che ti fanno pensare.
Tu allora, da quel piccolo ignorante che sei, annuisci, ti afferri il mento con la manina e inizi a riflettere sul fine ultimo della creazione, contento di avere amici sì acuti.
Lui, prostrato dall'atto del condividere la conoscenza, rutta e si scaccola.

La settimana scorsa, a un concerto, ho avuto un'illuminazione, qualcosa che aveva a che fare con un ricordo, cose che facevo anni fa.
Senza ragione, mentre il gruppo attaccava la seconda strofa, mi sono rivisto nella stessa posa che avevo in quel momento, con un bicchiere di birra annacquata in mano, nello stesso posto o in uno che somigliava tanto a quello, e non sapevo più quanti anni prima. Mi sono voltato, e il mondo si è dissolto nella nebbia, è esploso.

Le prime birre erano amare come fiele, andavano subito alla testa.
La musica che ascoltavo prima era morta, sepolta nei cassetti. Il Cencios mi insegnava un mondo nuovo, Incipit Vita Nova, e quello che scoprivo veniva con me sul cromo, riavvolgere la cassettina a mano, con le matite, altro che asettico digitale.
Quando avevo diciassette anni, il mondo aveva la consistenza del ferro, e tutto mi feriva. Avevo le braccia troppo lunghe, non riuscivo a stare in piedi senza ondeggiare come una canna al vento. Non capivo le leggi che regolano l'universo - non che adesso le capisca, mi limito ad accettarle - le termodinamiche dei sistemi chiusi, i codici non scritti della vita sociale. Avrei tanto desiderato una guida, sognavo un Manuale di Sopravvivenza alla Vita, qualcosa che ti aiutasse nelle situazioni più complesse:
Sei ad un concerto. Vedi una ragazza che ti piace. La conosci? Vai al punto 8. Non la conosci? Vai al punto 2. E così via.
E invece niente, è sempre un imparare sulla propria pelle, farsi male, credere che quelle ferite rimarranno aperte per sempre, che ci sarà sempre qualcuno che ti butta sale per rinfocolare il dolore. Poi, anni dopo, o forse settimane, ti chiedi perché eri triste, e non lo saprai più, l'età dell'oro ti sembra vuota e muta, come la pagina bianca alla fine del libro.
(La pagina bianca alla fine del libro è un mistero. Il libro è finito, la storia si è conclusa, fai per chiduere il volume soddisfatto, ma ti trovi una pagina in più, bianca. Ti blocchi, sorpreso: cosa fai lì, nuda? Cosa mi vuoi dire? La guardi, e pensi che forse il vero finale era lì, e nel tempo che hai impiegato a leggere tutto il resto, le lettere si sono sciolte, sono scivolate via, si sono dissolte. Alla fine chiudi il libro, e ti resta il dubbio di aver perso qualcosa; l'ultima pagina bianca, beffarda, ti rovina il finale).

Gli anni novanta non sono mai passati, sembrano ancora lì. Io non ci credo che sono passati tutti quei giorni, non mi ci convinco. Me lo ripeto, mi faccio vedere i calendari, mi dico "ecco, vedi? Siamo nel futuro". Faccio sì con la testa, dico "vabè, sarà", ma a me sembra tutto uguale, non mi sento cambiato, sono ancora una persona impraticabile, con la barba, certo, e con un'igiene personale più dignitosa, e forse con meno capelli (forse?), e senza dubbio più felice.
Però.
Però non capisco come sia successo, che il tempo si è conservato così bene, che continuo ad essere ottimista e non rimanere mai deluso.

Sbatto le palpebre, e la nebbia si dissolve: mi volto verso il palco, il gruppo attacca la terza strofa e la tastierista fa da controcanto. I miei amici sono con me, la birra è ancora fredda.
Viaggiare nel tempo è un lavoro duro, ma qualcuno deve pur farlo.
Alzo il bicchiere.
Salute.
E strizzo l'occhiolino.

martedì, maggio 04, 2010

UGMP - fast forward

Cari tutti, dopo due anni e mezzo e ventitré post di sofferenza e dolore, il Giangi vagolante ha trovato la sua collocazione ideale.
Mi spiego: mi sono reso conto che la rubrica in questione, UGMP (Un Giustificato Motivo Per), ha raggiunto una mole e un'articolazione narrativa tale che nel Blog Ottuso ormai non ci stà più; indi per cui ho realizzato una piattaforma sua propria, un blog dedicato, ove le avventure del Giangi possono essere lette in continuità e con la dovuta dedizione.
Quindi il capitolo odierno non lo trovate qui, ma qui, insieme ai post passati e a quelli futuri.
Enjoy, e statemi pronti, che sto preparando dei post esplosivi.

venerdì, aprile 30, 2010

Gli stranieri non capiscono - V

Con una mossa a sorpresa (anche mia, che non me lo aspettavo più), ritorna una delle rubriche più amate dai lettori del Blog Ottuso, e spiace per quelli che non possono stupirsi con me, tipo Daniel che ha preferito andare a Ibiza a cantare pipòlfromIbisa piuttosto che restare davanti al computer ad aspettare un nuovo post.
Ci stava un punto qui? O ho chiuso la frase senza metterci il verbo? Boh.

Dicevo: torna la rubrica più amata dai lettori dopo un'assenza di un anno e passa. Quindi forse è il caso di spiegare di cosa parliamo quando parliamo di GSNC (Gli Stranieri Non Capiscono). Urakidany è un italiano che vive e lavora a Tokio da qualche anno, e periodicamente ci fa da corrispondente (con tutto l'astio possibile dell'emigrante) su usi e costumi degli indigeni. La rubrica è aperta a curiosità e domande di ogni genere: chiedete e Uraki vi risponderà.
Un'ultima cosa: l'argomento di questo post è particolarmente delicato, lo vedrete leggendo la prima frase. Mi sento di ringraziare pubblicamente Uraki per averlo voluto condividere con noi, e mando un abbraccio virtuale a lui e a sua moglie per tutti i momenti brutti che hanno passato.
Fatelo anche voi, se vi va.
Heike

Recentemente sono andato al funerale di mio suocero.
Anche in una simile circostanza, in cui certo nessuno si aspetta di divertirsi ma nemmeno di irritarsi o indignarsi, questo paese è riuscito a stupirmi (per non dire scioccarmi).
Diciamo che la giornata è partita male. I problemi intestinali di mio figlio che già mi avevano fatto passare una notte insonne e pentire di non averlo affidato a qualcuno, hanno contribuito a rendere ancora più difficile questo momento.
Dopo essere stati all’ospedale (qui ci sarebbe da fare un discorso a parte, visto che alcuni erano chiusi e altri aprivano in tarda mattinata, come se le emergenze non dovessero esistere prima di una certa ora) ci rechiamo al luogo per le esequie funebri. Un luogo da un nome caratteristico: “Memory Hall”, scritto in katakana (uno dei loro 3 alfabeti) メモリホル e bizzarramente pronunciato MEMORIHORU.
Qui troviamo diversi parenti che neanche mia moglie aveva mai conosciuto in vita sua. Al contrario di quanto si pensi, questo paese non tiene in particolare considerazione le relazioni familiari e spesso i giapponesi si incontrano solo ai matrimoni o ai funerali. Per esempio, io avevo incontrato mio cognato solo al mio matrimonio quattro anni fa e al funerale di mio suocero, oltre ad averlo rivisto per la seconda volta, ne ho conosciuto per la prima volta i genitori.
Dopo i vari saluti di circostanza, in cui praticamente tutti mi hanno quasi ignorato, arriva l’organizzatore della cerimonia: faccia emaciata, occhiaie profonde; insomma, in perfetta sintonia con il lavoro che svolge. Comincia a spiegarci dove sedersi esattamente, dove stare quando non siamo seduti, cosa fare e cosa dire.
Ormai avevo capito da tempo che questo è un paese molto cerimonioso e che i nipponici amano essere guidati perfino ad andare al bagno, ma pensavo che a un funerale si fosse un po’ più liberi da certi schemi e ritualismi. Niente di più sbagliato. E quello che sarebbe successo dopo mi avrebbe fatto capire quanto io continui scioccamente a illudermi.
Mentre su di un monitor scorrono le foto in slide show del ‘caro estinto’ ci mettiamo tutti a sedere. A un certo punto arriva una donna molto elegante. Si mette in una postazione tipo dj da discoteca in un angolo della sala. Esordisce con banali frasi di circostanza: “la morte di quest’uomo ha lasciato un vuoto incolmabile nella famiglia” e cose del genere.
Dopodiché io e mia moglie ci alziamo e ci rechiamo vicino a un altarino dove dobbiamo alzare tre volte della cenere da dentro un’urna e lasciarla ricadere al suo interno. Seppure non sia un fervente cristiano mi rifiuto di scimmiottare rituali di altre religioni (oltretutto senza capirne il significato) pertanto mi limito a unire le mani in gesto di preghiera e a salutare con un inchino i parenti in segno di ringraziamento per la loro partecipazione.
A un certo punto, i familiari del defunto devono alzarsi due alla volta, inchinarsi prima verso le persone sedute sulla sinistra, poi verso quelle sulla destra, alzare e far cadere per tre volte la cenere da un’urna volgendo le spalle a tutti, pregare brevemente per poi rivolgersi ancora agli astanti in sala salutandoli di nuovo con un inchino da sinistra a destra prima di rimettersi a sedere.
A proposito dell’inchino ricordo una scena interessante. Ero in una chiesa dei salesiani vicino a casa il giorno della vigilia di Natale; per la prima volta partecipavo a una messa in giapponese, quando al momento dello scambio del segno della pace tutti, come marionette, cominciano a inchinarsi molto velocemente a destra e a manca. Riflettendoci un attimo, è normale aspettarsi questo dai giapponesi piuttosto della stretta di mano come facciamo noi, ma vedere quel ritmo meccanico di inchini in tutte le direzioni è stato particolarmente esilarante.
Tornando al funerale, dopo gli ossequi di rito, arriva un monaco buddista, si mette a sedere davanti all’altarino e volgendo le spalle all’assemblea, comincia a intonare il sutra dei defunti: una cantilena di 30/40 minuti circa, recitata in una lingua arcaica che nessuno capisce e accompagnata dai rintocchi di una campana che lui stesso batte. Nessuno nella famiglia di mia moglie è buddista, ma i giapponesi magicamente lo diventano quando devono far celebrare un funerale; suscitando, talora, per queste loro estemporanee metamorfosi religiose, il disappunto degli stessi monaci buddisti.
Alla fine la cerimonia viene chiusa come era iniziata, ovvero con lo stesso inchino di commiato da parte di tutti i parenti agli astanti e dopo che il monaco se ne va, ecco che torna la cerimoniera-dj che inforca altre frasi di circostanza e ci spiega cosa dobbiamo fare a quel punto della cerimonia.
Viene condotto il feretro aperto e a tutti vengono distribuiti fiori di loto da porre sulla salma. Nel momento di cordoglio, tra lo strazio generale dei pianti, un’altra persona dello staff comincia a scattare foto. Questa è stata la prima vera cosa che mi ha sconvolto quel giorno. I giapponesi conservano album di fotografie dei funerali come si fa per i matrimoni. Vogliono conservare il ricordo non solo dei lieti eventi, ma anche di quelli che nessuno di noi vorrebbe mai ricordare.
La morte per loro costituisce al contrario un evento da ricordare, perché essa non è una fine, ma un legame nella catena dei doveri che a scadenze precise e comandate si presentano (il periodo del lutto, gli anniversari speciali della morte, le feste dedicate ai morti, ecc.).
Non avevo un grande rapporto con mio suocero, ma la vista di una persona morta che conosci ti stringe inevitabilmente la gola. Ci ho pensato dopo e mi sono decisamente irritato. Ma come si fa a tollerare che qualcuno ti faccia delle foto mentre piangi per la perdita di un parente! La cosa purtroppo non solo è tollerata, ma è parte di tutto il pacchetto della cerimonia. Cerimonie dietro il quale ci sono giri di soldi pazzeschi. Finora conoscevo solo quello delle cerimonie nuziali ma ho scoperto che le imprese funebri e gli stessi monaci buddisti oltrepassano di gran lunga quel limite. Sembra che in questo paese tutto sia commercializzabile, non soltanto lo spettacolo della sofferenza umana, ma tutto ciò che c’è di terreno e ultraterreno. Guai però a fare una critica del genere davanti a un giapponese. Ti lancerebbe uno sguardo di disprezzo, quasi fossi un demonio che volesse stravolgere dinamiche assolutamente naturali e umane. Ma non c’è solo il fatto che le fotografie servono a ricordare, l’uso che i giapponesi fanno delle fotografie e molto diverso dal nostro, fotografano l’inimmaginabile, non solo per contemplare, rievocare, ma soprattutto per catturare momenti di vita che credono di vivere ma non vivono. Compresi quelli che si presentano in modo particolare e doloroso. Vi è un’inevitabile bisogno di mostrare la loro partecipazione a questa vita catturata a forza. Fotografano il primo sbocciare di un fiore di ciliegio perché esprime l’effimero, quindi la loro stessa vita che sfugge e si dissolve come la fioritura di ciliegi nell’arco di una settimana. Ma di questa sentimento dell’effimero non ne traggono alcuna lezione di vita. Non fanno nulla per migliorarla, per gioire, per renderla meno soffocante, più libera da schemi, regole, doveri spesso inutili e senza senso. Anzi, sembra che più questo “effimero” sia regolato da prescrizioni e doveri, più esprima la vita stessa, come se questo ordinamento fosse l’espressione o l’incarnazione di una legge cosmica universale. È una società senza valori, perché i valori costano e richiedono sacrificio personale. Hanno già dedicato se stessi a tutto il resto che non rimangono risorse personali se non per dei valori inutili.
Finito il teatrino degli scatti fotografici, arrivano delle persone dello staff e ci invitano, guidandoci passo a passo come bambini, a entrare dentro un autobus con tutti gli avvertimenti del caso a cui loro non possono assolutamente rinunciare: “attenti al gradino”, “attenti alla testa” ecc.
L’autobus ci conduce esattamente nel posto dove la salma deve essere cremata e sembra che qua, per legge tutti i defunti lo debbano essere. Appena giunti a destinazione arrivano come formiche altre persone dello staff (è incredibile come in Giappone siano necessarie così tante persone per i lavori più inutili) che ci invitano ancora una volta a non sbattere la testa uscendo dall’autobus, come se fossimo deficienti o masochisti, e ci fanno strada uno a uno dalle loro posizioni verso i forni crematori (non per noi per fortuna). Praticamente 100 metri di giardino erano coperti da almeno 20 persone che uno alla volta ci indicavano con la mano la strada da percorrere. Dentro la sala dei forni troviamo un’altra miriade di persone per soli 5 forni, ci invitano a salutare per l’ultima volta il defunto da una finestrella che si apre sulla bara e ne mostra il viso e poi via all’ignizione. Durante l’attesa ci invitano a sederci in una saletta privata dove arrivano dolci e bevande varie (anche alcoliche e nonostante tutto quello che si prendono per questa cerimonia, ci vengono messe in conto come negli hotel) e mentre il pover’uomo arde noi beviamo e chiacchieriamo amabilmente tra parenti semisconosciuti.
Dopo un po’ ci avvertono che la cremazione è finita. Ci rechiamo tutti nuovamente verso i forni dove succede quello che proprio non mi sarei mai aspettato. Viene aperto il forno e cominciano a rimestare i pezzi di ossa rimasti davanti ai nostri occhi. Alla vista di una parte delle ossa facciali di mio suocero io mi reco fuori, perché nonostante non sia particolarmente impressionabile, non mi piace vedere i resti di una persona conosciuta che fino a 30 minuti prima mostrava integro il suo corpo. Giuro, che ancora quando chiudo gli occhi, mi torna in mente l’immagine di quelle ossa facciali. La cosa che mi lascia interdetto è che se vai dal macellaio trovi la carne già prontamente tagliata senza ossi perché secondo lo shintoismo (altro cambio di religione e non vi stupite se cominciate a non capirci più niente perché si sono persi da secoli anche i giapponesi) il sangue e gli ossi dei quadrupedi sono considerati impuri e non devono essere mostrati. Anticamente (e qualche volta anche ai giorni nostri ma ne riparleremo meglio in futuro), chi faceva questo lavoro veniva bistrattato e trattato come una persona immonda mentre le ossa di un parente defunto non suscitano alcun turbamento o repulsione.
Mentre un po’ confuso continuo a passeggiare, arrivano altri parenti a invitarmi dentro; i loro occhi esprimono ansia e mi invitano urgentemente a rientrare dicendomi qualcosa del tipo: “svelto! C’è la cerimonia delle ossa, non puoi mancare!”. Eh no! A questa cerimonia passo e che si offendano pure! Dico che mi dà fastidio e preferisco evitare. Scorgo le loro facce sorprese perché quello che si apprestavano a compiere è per loro la cosa più normale del mondo, come lavarsi i denti la mattina.
Successivamente però mi sono fatto spiegare da mia moglie in cosa consisteva il macabro rituale. Praticamente ognuno dei parenti deve prendere un pezzo di osso con delle molle e depositarlo nell’urna cineraria. Le regole sono severe, bisogna iniziare dai piedi per arrivare alla testa. Verrebbe da dire:” vince chi completa prima il puzzle” se non si trattasse dell’incredibile realtà (che talora supera la fantasia). Scherzi a parte, la ritualità dell'azione serve solo a sottolineare che non sono le ossa di un pollo che puoi buttare nel bidone dell'immondizia e quindi diventa un gesto di deferenza verso il defunto, per quanto un tantino macabro.
A proposito mia moglie mi ha spiegato che è di malaugurio mentre si mangia prendere insieme lo stesso pezzo di cibo con le bacchette perché ricorda proprio questo rito. Quando finalmente finisce tutto veniamo guidati di nuovo dal personale delle onoranze che ci ripete il ciclo delle indicazioni e gli avvisi per risalire in autobus e tornare nuovamente alla Memory Hall.
In questo paese ogni giorno sembra di vivere tanti déjà vu, tale è la mole delle ripetizioni delle cose che si devono fare e delle stesse frasi che, provenienti dagli altoparlanti sparsi ovunque, si devono ascoltare (l’inquinamento acustico di una città come Tokyo non ha rivali, non solo, sembra che nessuno conosca la parola “inquinamento acustico” tanto vi ci sono abituati). Come ogni cerimonia che si rispetti non c’è conclusione degna se non finisce con un banchetto. Immagino che mangiare e chiacchierare serva tutto sommato ad allentare la tensione, a sdrammatizzare l’angoscia della morte, visto che ogni popolo ha un diverso modo di affrontare questo evento.
Tra le cose curiose, questo Memory Hall è come una specie di hotel, con diverse stanze private, con tanto di vasche e docce (ma non chiedetemi il perché), stanze per le cerimonie e sala per i banchetti. In questa sala vicino ai tavoli si trova una specie di altarino con la foto del defunto, a cui davanti viene appoggiato lo stesso pasto che tutti i commensali consumano per esprimere la comunione con i viventi. Ci mettiamo tutti a tavola.
In generale in Giappone, la persona più importante del banchetto, deve stare seduta a un lato centrale del tavolo a destra o a sinistra. Nella nostra situazione, per qualche strana ragione, occupa questa posizione la parente più anziana, che è anche la più chiacchierona e rompiballe della giornata (oltre ad essere la prossima candidata alla cerimonia funebre!) che in continuazione parla dei tempi della guerra, riporta pettegolezzi su persone estinte, malate, senza risparmiare anche qualche punta di malignità nei confronti di mia suocera, anch’essa defunta. Parla con tutti, pure con mio figlio di un anno, ma mai con me.
Improvvisamente mi rendo conto che non solo lei, ma nessuno, fin dall’inizio mi ha quasi mai rivolto la parola se non per dirmi cosa dovessi fare. Praticamente anche gli stranieri devono obbedire alle loro regole, partecipare alle loro cerimonie ma poi diventano poco più del fondale di una stanza quando si tratta di parlare del più o del meno o essere parte della società comune e non ti danno considerazione neanche per finta o per simulare un minimo di educazione. A ripensarci mi viene una rabbia incredibile, praticamente non conto niente e non perché loro non mi conoscono, quasi nessuno di loro si conosceva prima di incontrarsi in quell’occasione ma io ero un’eccezione … come se non fossi degno di partecipare al loro banchetto.
Questo è purtroppo quello che succede quasi ogni giorno a uno straniero che vive qua, a volte, all’opposto ti coprono di considerazioni (soprattutto i giovani) perché essendo straniero li incuriosisci come le scimmie incuriosiscono i bambini allo zoo, ma il più delle volte (soprattutto gli anziani) ti ignorano completamente (e devo dire che i giapponesi hanno un’abilità particolare nell’ignorare qualcuno o qualcosa).
Quindi mi trovo in questo pranzo considerato solo da mia moglie che per fortuna commenta sarcasticamente con me quello che avviene durante questo pranzo e non mi stupisco che queste persone non si siano mai, oppure di rado incontrate in vita loro. Prima di questa esperienza agognavo tantissimo una famiglia giapponese, visto che da quando sono qui sono praticamente sempre stato solo con mia moglie e avevo grandi aspettative da questa riunione, seppur in una spiacevole evenienza. Adesso posso farne volentieri a meno, nonostante sia molto dispiaciuto, preferisco godermi mia moglie e mio figlio e dimenticarmi di questa gente.
Comunque, mentre tutto il resto dei commensali chiacchiera ancora per una volta del più e del meno arriva il tipo con la faccia da becchino che, senza alcun riserbo, interrompe tutti i discorsi e ci invita cortesemente ad andarcene. Tutti si alzano mestamente perché qui funziona così, da noi sarebbe stato maleducato interrompere un pasto, soprattutto in un’occorrenza del genere, ma qua no. Anche la maleducazione spesso è sistemica, e al contrario, un gesto per noi educato (come per esempio se vediamo qualcuno in apparente difficoltà e chiediamo se ha bisogno di aiuto…praticamente ho smesso di aiutare le mamme col passeggino a fare le scale visto che tutte le volte mi sembrava di fargli un torto), è spesso ritenuto impertinente e fastidioso.
Torniamo a casa con il tizio dalla faccia da becchino che ci segue, come a dire: “la morte ti sta sempre appresso”. Una volta arrivati a casa ci sistema un altarino in una stanza. Nel nostro caso scegliamo la washitsu (la stanza in stile giapponese con il tatami) e accanto alla foto viene posizionata della frutta e l’urna con il resto delle ossa e delle ceneri che deve restare nella casa per 49 giorni; dopodiché l’urna verrà messa nella tomba di famiglia rappresentata da una sola lapide senza foto con su scritti i nomi dei defunti, ma cambiati nella forma buddista (anche qui sempre che nessuno sia mai stato in vita sua buddista). Questo nome postumo si chiama “kaimyo”, viene dato perché la morte è un passaggio, il funerale è un rito di passaggio, si passa da una condizione di vita a un’altra; il nome rappresenta una identità diversa da quella avuta in vita (lo shintoismo, la religione autoctona, non ha una escatologia sviluppata, quindi non dice nulla o molto poco riguardo alle condizioni di vita dell’anima dopo la morte, a questa assenza risponde appunto il buddismo). Fin qui tutto bene se non fosse che i monaci, in accordo con le imprese funebri si fanno pagare questi Kaimyo e vi garantisco che questi soldi non vanno in beneficienza ma se li intascano direttamente loro. Se questo non bastasse, aggiungo che ci sono diverse tariffe, a seconda del nome e si va da un Kaimyo di fascia bassa che costa 300.000 yen fino al top di gamma che viene 200.000.000 yen. Vi chiedete perché mai i parenti non dovrebbero scegliere il nome postumo meno costoso? Semplice, perché più costoso è il kaimyo e più sicura e agevole è la strada verso il paradiso. Che ci fossero delle corsie preferenziali nell’aldilà con pagamento in moneta questa proprio mi sfuggiva e ringrazio i monaci buddisti giapponesi per questa importante dritta. Se una persona volesse fare un torto all’odiato parente anche dopo la morte sa come fare: basti che gli compri un kaimyo da pezzente. In ogni caso è molto interessante vedere non solo come questa gente del settore se ne approfitti ma come tutti gli altri si bevano questa storia e ingrassino le tasche di questi santoni.
Per fortuna mia moglie poi mi ha raccontato che recentemente sempre più persone della nuova generazione rifiutano questo tipo di rito funebre per loro macabro e troppo impostato (anche decisamente costoso) e a volte celebrano il tutto senza monaco, con semplicemente della musica di sottofondo e senza il rito delle ossa e dell’urna. Anche la madre di mia moglie non aveva simpatia per la cerimonia classica e aveva lasciato tra le disposizioni la volontà che partecipassero solo il marito e le due figlie al rito. Quando il tizio delle onoranze funebri se ne va mia moglie e sua sorella si mettono attorno al tavolo con una pila altissima di documenti e cominciano a discutere di faccende legali.
Tutto abbastanza regolare se non per una cosa che mi incuriosisce particolarmente: come per i matrimoni i parenti più lontani devono lasciare una busta con dei soldi alla famiglia se nonché, circa la metà deve essere restituita sempre in una busta al mittente. Ho scoperto in seguito che questo viene fatto anche in altre circostanze; anche nel compenso di una prestazione musicale o altro. Sinceramente non capisco il senso di tutto questo, ma sono troppo stanco per chiedere ulteriori spiegazioni che alla fine comunque, essendo uno sciocco straniero, non potrò mai capire.
La giornata finisce e quando pensi di poterti mettere tutto alle spalle, il giorno seguente arriva, senza preavviso, una persona delle pompe funebri che suona alla porta e ci chiede di entrare per consegnarci un questionario di gradimento del servizio svolto. Passati un paio di giorni invece chiamano mia moglie al telefono dicendo di recarsi alla loro sede con sua sorella per parlare di alcune pratiche da sistemare e abbastanza urgenti. Arrivate lì scoprono che si tratta solo di una scusa e cominciano subito a parlare di promozioni e sconti famiglia nel caso qualcun altro membro della famiglia (e qui le corna ci stanno tutte) dovesse ancora avere bisogno dei lori servigi. Ma perché tutto in questo paese deve essere così grottesco e amareggiante?

giovedì, aprile 29, 2010

Le cose a venire

Stanotte si è dischiusa davanti ai miei occhi chiusi, nel sonno, la vera natura del mondo, definita in una sorta di albero dei sefirot, una scala che saliva al cielo, un carro di Elia che descrive come sono costruite le cose nel mondo degli uomini.
Destatomi, ho provveduto a realizzare un supporto grafico di tale illuminante epifania, che vi agevolo, così che vi sia d'aiuto nel vasto e pericoloso mondo là fuori.
Il biscottino, che ve lo dico a fare, sa di segatura.

martedì, aprile 20, 2010

L'anno della cometa

Potrei parlare del risultato elettorale straordinariamente favorevole a tutti.
Potrei parlare del dibattito interno al partito di maggioranza sul se e come avere un dibattito interno, o del dibattito interno al centro sinistra sul se avere una schiena dotata di spina dorsale possa servire ad affrontare le piccole difficoltà di tutti i giorni.
Potrei parlare del fatto che la Fiorentina insiste nel giocare le partite in undici, quando è evidente a tutti che quest'anno, per portare a casa tre punti da almeno una partita si debba PER FORZA giocare minimo in diciotto.
Potrei parlare del fatto che, niente da fare, io l'aglio non lo digerisco, non c'è nulla da fare, però mi piace, mica posso semplicemente rinunciarvi, continuo a mangiarlo e poi a rimangiarlo per i tre giorni successivi, l'unica soluzione è mangiare aglio ad ogni pasto, o esplodo o il mio stomaco si abitua.
Potrei parlare di.
E invece no.
Parlerò di fisica sub-atomica, insieme al celebre ricercatore del CERN, il professor Alfred Sofficiotty. Buonasera professore.
Buonasera heike.
Heike si dice maiuscolo.
Mi scuso. Buonasera HEIKE.
No, non tutto maiuscolo, solo l'iniziale.
Mi scusi.
Mi scusi...?
Mi scusi Heike.
Bene. Professor Sofficiotty, lei da anni lavora presso il CERN di Ginevra, il più grande laboratorio al mondo per la ricerca sulla fisica delle particelle, qualunque cosa significhi. Molti lettori ricorderanno che presso il CERN è collocato il Large Hadron Collider, o LHC, cioé l'accelleratore di particelle più grande e potente mai creato, che è capace di accellerare le particelle sub-atomiche, pensate, ad una velocità pari al 99,99999% della velocità della luce, e poi farle schiantare tra di loro. Chissà che risate che vi fate quando si schiantano, eh professore?
Eh, fanno dei botti.
Esatto. Ora, come forse alcuni ricorderanno, proprio il LHC è stato al centro di un dibattito con vasta eco un paio di anni fa, quando alcuni catastrofisti dicevano che l'accensione del LHC avrebbe potuto portare alla creazione di un buco nero e quindi alla fine del mondo. E' esatto professore?
Si, nel settembre 2008, prima dell'inaugurazione del LHC, ci furono molte polemiche sulla possibilità che l'accelleratore potesse, come lei giustamente ha detto, creare un buco nero che inghiottisse la terra.
E poi cos'è successo?
Abbiamo avviato il LHC, non è stato creato nessun buco nero e la terra non è stata distrutta.
E questo come lo spiega?
Probabilmente abbiamo fatto qualche errore di calcolo.
Professore, dopo un anno e mezzo di lavoro, che notizie avete da darci? Sarà possibile creare un buco nero che inghiotta finalmente la terra e ponga fine alle nostre miserevoli esistenze?
Per adesso purtroppo no. Stiamo continuando a lavorare e speriamo di farcela in futuro, anche se non siamo in grado di fare previsioni per quanto riguarda le tempistiche. Però abbiamo inventato un mastice capace di saldare definitivamente lo sfintere che Calderoli ha al posto della bocca.
Lo vedi allora che la scienza ogni tanto serve?

martedì, aprile 06, 2010

A gentile richiesta

sabato, marzo 27, 2010

Che si chiama, ora e sempre, resistenza

Se qualcuno non vi riceve né ascolta le vostre parole, uscendo da quella casa o da quella città, scuotete la polvere dai vostri piedi.
Matteo 10,14

Domani si vota.
O meglio: io voto.
Voi, non so.

Non deludetemi.

mercoledì, marzo 17, 2010

Il mio nome è legione

Nei commenti al post precedente c'è Dario che mi dice (cito testualmente):

Tutto vero quello che dici, ma qual'e' l'alternativa? Davvero con un governo di... per dire... Bersani, le cose andrebbero meglio? Forse non ci sarebbe la stessa arroganza nei ditoni puntati al petto, ma mi pare che la situazione politica non sarebbe gran che' diversa, e quei cazzoni che votano Berlusconi e Lega mi sa che non starebbero comunque meglio se avessero tutti in massa votato DS... PDS... PD.

Mh.

In genere ai commenti rispondo nei commenti (tranne a quelli di VampireBudina, perché per lei - lo sapete - ho un debole), perché è lì che c'è il dialogo, nei commenti leggono solo i visitatori assidui, i post li leggono un po' tutti, se rispondo con un post dedicato finisce che parlo dalla cattedra, sembra quasi che mi metta a dare di cretino ad uno in pubblico.
Detto questo.
Dario, sei un cretino.
No, aspetta a offenderti, non sei un cretino te come persona. Sei un cretino in quanto figura, diciamo così, mitopoietica. Son sicuro che te sei un gran bravo ragazzo, ti piace la natura, sei politicamente impegnato, sicuro laureato, fai la raccolta differenziata e aiuti le vecchie a attraversare la strada, ma hai lasciato quel commento un po' gonzo e adesso finisci per passare da quello che magari non sei, cioé il cittadino indignato ma anche disilluso sullo stile beppegrillesco, un "ah ma tanto sono tutti uguali, che credete, le ideologie, ah, siete tutti degli illusi, questa gente vi ruba in tasca mentre voi vi illudete, ah, poveri fessi, questi non riparano nemmeno le buche in terra, in inghilterra fanno questo e quello, in america vanno in prigione, la germania poi, noi invece come lo swaziland" e così via, con una dotazione di ironia che nemmeno, tipo, lo swaziland.

Allora.
Mi chiedi se penso davvero (quel "davvero" va inteso ridacchiato, e detto alzando il sopracciglio in tono derisorio) se con un governo di, non so, Bersani, le cose sarebbero migliori.
Dario, stai scherzando?
Le cose sarebbero migliori anche con un governo di Sbirulino, altro che Bersani. Bersani è stato un buon ministro, Rosi Bindi è stata un buon ministro, pure quella merda di D'Alema è stato un buon ministro degli esteri. Cazzo, di quello che abbiamo adesso era meglio perfino il governo di Giuliano Amato, che almeno i conti li sapeva fare, e ho detto tutto.
Poi, se mi vuoi dire che la colpa della crisi non è di Sberluscone, va bene, son d'accordo. Però, vedi questo: se un terremoto mi tira giù casa, la colpa non è del governo, ci mancherebbe, ma se dopo un anno casa mia è ancora sdraiata sul marciapiede perché nessuno fa niente nè permette a me di fare qualcosa, allora sì, la colpa è del governo, cioè di chi le cose le deve fare (o far fare).
Ora noi siamo tutti con la casa sul marciapiede - questo è metaforico per tutti meno che per gli aquilani (solidarietà, gente). Io con Sberluscone ce l'ho non perché ha fatto crollare le cose, ma perché non le aggiusta. Porca miseria, è l'uomo più ricco e potente d'Italia e non trova uno, dico uno, che sappia scrivere una legge per il riordino del mercato del lavoro? Per la riforma delle pensioni? Per la riforma della giustizia? Questo non è un colpo di stato, questo è un colpo di sonno.
Mi dici che la situazione politica non sarebbe diversa con Sbirulino al governo.
Mi dici: qual'è l'alternativa?
Questo, questo è il nostro problema.
Il continuare a dire "eh, ma che alternativa c'è? Bersani? D'Alema? Bfff!" Porca miseria, c'avete BERLUSCONI AL GOVERNO! BERLUSCONI AL GOVERNO! Quest'uomo non governa, si fa i bagni di folla e poi le saune con le barely legal!
Legittimo impedimento?
Bavaglio alla stampa?
Decreto interpretativo?
Leggi ad personam?
Ma che è, un delirio? Ma cosa state dicendo?! Ma c'è qualcuno che sia in grado di andare da un qualunque maledetto elettore pdl estimatore di Sberluscone e dirgli IL TUO PRESIDENTE NON STA FACENDO NIENTE, QUESTO GOVERNO E' IMMOBILE COME IL DUOMO DI FIRENZE, LO VUOI CAPIRE O NO DECEREBRATO?
E poi: com'è che bisogna sempre dirci che siamo degli imbecilli? "Eh, probabilmente anche se al governo ci fosse il PD-DS-PDS-PCI-PSIdUP-Spartachisti-Iloti di Sparta la situazione non sarebbe migliore..." Ma che ne sai, porca miseria! Magari navigheremmo in fiumi di nettare e ambrosia. Ma anche se no, sarebbe comunque meglio che avere un governo dinamico come un blocco di sorda ghisa, non ti pare?
A me un governo di destra va pure bene, se è espressione democratica e SE fa ciò per cui dovrebbe esistere. Questi sono eletti, ma non-fanno-una-sega-di-niente-da-nove-anni.

Il PD è una costante, costante delusione. Ma per me continua a essere meglio dei cespuglietti che fiorivano anche nel sottoscala scandendo slogan di lotta e di battaglia solo per riempirsi la bocca. Mi si diceva: non ti fidare di chi parla di morire per un ideale, perché in genere a morire ci manda gli altri.
Gli elettori a sinistra del PD sono tutti morti, perché tutti erano pronti a morire pur non di non cedere di un passo. Ecco, bravi, continuate così.
Il baratro si è mosso, mentre eravate fermi, e vi ha inghiottiti.
Anzi, ci ha inghiottiti.
Tutti.

martedì, marzo 09, 2010

Meu amigu Charlie Brown

Io, sarà che son facile da intortare, ma quando qualcuno mi racconta delle cose che non stanno né in cielo né in terra, alla fine l'abbozzo sempre, se me le racconta bene.

Se c'è uno che è un minimo - ma proprio un minimo - aggressivo, stento a replicare, anche se sta dicendo delle grandissime vaccate.
L'autorità mi infonde insicurezza.

In un bar, domenica mattina. Heike entra con la sciarpina equa e solidale e il cappotto peloso da povero, si avvicina al bancone e chiede una tisana al rosmarino. Accanto a lui un uomo alto, grosso, abbronzato, con il nodo della cravatta grosso quanto la testa di un seienne, spiega come dovrebbe andare il mondo ad un invisibile interlocutore, mentre regge in mano un mojito.

- Perché i SUV consumano meno dei motorini, lo sai? L'hanno dimostrato in Svizzera, un ente di ricerca che lavora per l'ente spaziale europeo, che un SUV parcheggiato in seconda fila sulle striscie pedonali riservate agli handicappati col motore acceso i finestrini aperti e lo stereo che manda a tutta canna l'ultimo CD di Giggi D'Alessio comprato da un senegalese di merda, ecco, questo SUV inquina meno di un Ciao spento. Meno di una bicicletta ferma, anche. E la gente, che è stupida e non si informa, la gente non lo sa. Per esempio te, cosino - si volta verso Heike e gli punta il dito sul petto, rompendogli una costola - lo sapevi? Eh?
Heike scrolla le spalle, guardando a terra:
- No, io no. Vo a piedi.

Quando qualcuno mi dice una cosa puntandomi il ditone sul petto, io tendo a dire si si ha ragione la prego non mi faccia del male, il che, ne convengo, è molto poco vicino al tipo di persona che vorrei essere. Tipo, mi dico che se ci fosse la guerra civile spagnola andrei a combattere contro il fascismo nelle brigate internazionali, ma questo perché adesso la guerra civile spagnola non c'è, ci sono solo sangria e paella, quindi vado sul sicuro. Probabilmente se una tempesta magnetica mi trasportasse indietro nel tempo fino agli anni trenta, precipitandomi su un treno diretto a Madrid con un fucile in mano, finirei per nascondermi nel bagno del vagone.
Fino alla fine della guerra.
E quando il controllore bussa per chiedere il biglietto, farei la voce da signora anziana col femore rotto.

Come conseguenza di questa mia carenza in termini di testosterinicità, ho sviluppato quella che altri chiamano la "sindrome da signore sbeffeggiato in pubblico che sta rendendo sempre più sferzante la risposta che NON ha dato".
Mi sfogo dopo, insomma, da solo. In macchina (ma non quando sono fermo in coda al semaforo, che qualcuno potrebbe pensare che sono pazzo solo perché sto gridando contro lo sterzo), sotto la doccia (lo scròscio dell'acqua copre le grida), in sala prove (la affitto quando sono molto arrabbiato, ha le pareti insonorizzate e posso urlare quanto voglio), in fumetteria (tanto lì gridano tutti, è un luogo rilassante).
Questo sfogo posticipato mi porta ad assumere un atteggiamento vagamente rassegnato, per cui se il paese nel quale sono nato, vivo, lavoro, pago le tasse, ecco, se in questo paese governano i fascisti da non so più quanto e piangono miseria e si lamentano e mi puntano il ditone sul petto e minchia se scassano, ecco, io mi rassegno, chino il capo, scrollo le spalle e dico "pazienza".
Però poi urlo, nella solitudine delle mie stanze (il bagno).
C'è poi da considerare che sono una persona fondamentalmente autistica, sono uno di quelli che crede che il miglior software mai creato siano gli spreadsheet, e mi diverto a mettere i numerini su excel. Questa mia dedizione alle scienze esatte (e al solipsismo) comporta che, qualunque cagata questo governo di fascisti dica, finisco per creare un foglio di calcolo per confutarla, quindi, eccoci al punto di questo post.

Con l'aiuto di Wikipedia ho calcolato che.
L'Italia repubblicana ha un governo suo autonomo da, ad oggi nove marzo, 25253 giorni.
Di questi, un esponente comunista ha fatto parte dell'esecutivo per giorni 1046, ovvero il 4,5%.
Forza Italia è stata al governo per 2053 giorni, cioè quasi il 9% del totale.
Il doppio dei comunisti, per dire.
Dal 1994 Berlusconi è stato presidente del consiglio per 2723 giorni su un totale di 5782.
Dall'11 giugno 2001 è stato capo del governo per 2471 giorni, il 77,4% del tempo del mondo reale, con un intervallo di 722 giorni di miseria e Mastella del governo prodi.

Insomma, Berlusconi e i suoi stronzissimi amici sono al governo di questo posto dal 77,4% degli ultimi nove anni, e continuano a picchiarmi i loro ditoni sul petto dicendomi che se il mondo va male è tutta colpa mia. Ma insomma.
Sei andato al governo che mi schiacciavo i brufoli e sei ancora lì, e che hai fatto?
Volevi separare le carriere dei giudici e non hai fatto una sega.
Volevi fare la riforma delle pensioni e non hai fatto una sega.
Volevi cancellare lo statuto dei lavoratori e non hai fatto una sega.
Volevi il ponte sullo stretto, le centrali nucleari, le grandi opere e non hai fatto una sega.
Volevi cacciare tutti gli immigrati e non hai fatto una sega.
Cazzuola, c'era da levare i calcinacci (i calcinacci cazzo, i calcinacci, che basta una ruspa) a L'Aquila e no, c'avevi da fa'.
Dice, per forza, i giudici lo perseguitano e lui deve perdere tempo a prepararsi per i processi, non trova il tempo per governare.
MA METTETECI UN ALTRO ALLORA, PORCA MISERIA! Fini, Maroni, quell'idiota di Bondi, metteteci qualcuno a fare qualcosa, ma fatelo, porca di quella zozza ladra impestata.

Ora, è chiaro che io non è che voglio che fai quello che vuoi, ma l'unica cosa peggiore di un governo fascista che fa porcate è un governo fascista che fa porcate ma non fa nemmeno arrivare in orario i treni. E la gente che vota Berlusconi, che vota Lega, sta meglio ora o stava meglio dieci anni fa?
Per dire, eh.

Che a questo punto, mi sa, il problema con la gente che ti punta il dito sul petto non ce l'ho solo io.