Con una mossa a sorpresa (anche mia, che non me lo aspettavo più), ritorna una delle rubriche più amate dai lettori del Blog Ottuso, e spiace per quelli che non possono stupirsi con me, tipo Daniel che ha preferito andare a Ibiza a cantare pipòlfromIbisa piuttosto che restare davanti al computer ad aspettare un nuovo post.
Ci stava un punto qui? O ho chiuso la frase senza metterci il verbo? Boh.
Dicevo: torna la rubrica più amata dai lettori dopo un'assenza di un anno e passa. Quindi forse è il caso di spiegare di cosa parliamo quando parliamo di GSNC (Gli Stranieri Non Capiscono). Urakidany è un italiano che vive e lavora a Tokio da qualche anno, e periodicamente ci fa da corrispondente (con tutto l'astio possibile dell'emigrante) su usi e costumi degli indigeni. La rubrica è aperta a curiosità e domande di ogni genere: chiedete e Uraki vi risponderà.
Un'ultima cosa: l'argomento di questo post è particolarmente delicato, lo vedrete leggendo la prima frase. Mi sento di ringraziare pubblicamente Uraki per averlo voluto condividere con noi, e mando un abbraccio virtuale a lui e a sua moglie per tutti i momenti brutti che hanno passato.
Fatelo anche voi, se vi va.
Heike
Recentemente sono andato al funerale di mio suocero.
Anche in una simile circostanza, in cui certo nessuno si aspetta di divertirsi ma nemmeno di irritarsi o indignarsi, questo paese è riuscito a stupirmi (per non dire scioccarmi).
Diciamo che la giornata è partita male. I problemi intestinali di mio figlio che già mi avevano fatto passare una notte insonne e pentire di non averlo affidato a qualcuno, hanno contribuito a rendere ancora più difficile questo momento.
Dopo essere stati all’ospedale (qui ci sarebbe da fare un discorso a parte, visto che alcuni erano chiusi e altri aprivano in tarda mattinata, come se le emergenze non dovessero esistere prima di una certa ora) ci rechiamo al luogo per le esequie funebri. Un luogo da un nome caratteristico: “Memory Hall”, scritto in katakana (uno dei loro 3 alfabeti) メモリホル e bizzarramente pronunciato MEMORIHORU.
Qui troviamo diversi parenti che neanche mia moglie aveva mai conosciuto in vita sua. Al contrario di quanto si pensi, questo paese non tiene in particolare considerazione le relazioni familiari e spesso i giapponesi si incontrano solo ai matrimoni o ai funerali. Per esempio, io avevo incontrato mio cognato solo al mio matrimonio quattro anni fa e al funerale di mio suocero, oltre ad averlo rivisto per la seconda volta, ne ho conosciuto per la prima volta i genitori.
Dopo i vari saluti di circostanza, in cui praticamente tutti mi hanno quasi ignorato, arriva l’organizzatore della cerimonia: faccia emaciata, occhiaie profonde; insomma, in perfetta sintonia con il lavoro che svolge. Comincia a spiegarci dove sedersi esattamente, dove stare quando non siamo seduti, cosa fare e cosa dire.
Ormai avevo capito da tempo che questo è un paese molto cerimonioso e che i nipponici amano essere guidati perfino ad andare al bagno, ma pensavo che a un funerale si fosse un po’ più liberi da certi schemi e ritualismi. Niente di più sbagliato. E quello che sarebbe successo dopo mi avrebbe fatto capire quanto io continui scioccamente a illudermi.
Mentre su di un monitor scorrono le foto in slide show del ‘caro estinto’ ci mettiamo tutti a sedere. A un certo punto arriva una donna molto elegante. Si mette in una postazione tipo dj da discoteca in un angolo della sala. Esordisce con banali frasi di circostanza: “la morte di quest’uomo ha lasciato un vuoto incolmabile nella famiglia” e cose del genere.
Dopodiché io e mia moglie ci alziamo e ci rechiamo vicino a un altarino dove dobbiamo alzare tre volte della cenere da dentro un’urna e lasciarla ricadere al suo interno. Seppure non sia un fervente cristiano mi rifiuto di scimmiottare rituali di altre religioni (oltretutto senza capirne il significato) pertanto mi limito a unire le mani in gesto di preghiera e a salutare con un inchino i parenti in segno di ringraziamento per la loro partecipazione.
A un certo punto, i familiari del defunto devono alzarsi due alla volta, inchinarsi prima verso le persone sedute sulla sinistra, poi verso quelle sulla destra, alzare e far cadere per tre volte la cenere da un’urna volgendo le spalle a tutti, pregare brevemente per poi rivolgersi ancora agli astanti in sala salutandoli di nuovo con un inchino da sinistra a destra prima di rimettersi a sedere.
A proposito dell’inchino ricordo una scena interessante. Ero in una chiesa dei salesiani vicino a casa il giorno della vigilia di Natale; per la prima volta partecipavo a una messa in giapponese, quando al momento dello scambio del segno della pace tutti, come marionette, cominciano a inchinarsi molto velocemente a destra e a manca. Riflettendoci un attimo, è normale aspettarsi questo dai giapponesi piuttosto della stretta di mano come facciamo noi, ma vedere quel ritmo meccanico di inchini in tutte le direzioni è stato particolarmente esilarante.
Tornando al funerale, dopo gli ossequi di rito, arriva un monaco buddista, si mette a sedere davanti all’altarino e volgendo le spalle all’assemblea, comincia a intonare il sutra dei defunti: una cantilena di 30/40 minuti circa, recitata in una lingua arcaica che nessuno capisce e accompagnata dai rintocchi di una campana che lui stesso batte. Nessuno nella famiglia di mia moglie è buddista, ma i giapponesi magicamente lo diventano quando devono far celebrare un funerale; suscitando, talora, per queste loro estemporanee metamorfosi religiose, il disappunto degli stessi monaci buddisti.
Alla fine la cerimonia viene chiusa come era iniziata, ovvero con lo stesso inchino di commiato da parte di tutti i parenti agli astanti e dopo che il monaco se ne va, ecco che torna la cerimoniera-dj che inforca altre frasi di circostanza e ci spiega cosa dobbiamo fare a quel punto della cerimonia.
Viene condotto il feretro aperto e a tutti vengono distribuiti fiori di loto da porre sulla salma. Nel momento di cordoglio, tra lo strazio generale dei pianti, un’altra persona dello staff comincia a scattare foto. Questa è stata la prima vera cosa che mi ha sconvolto quel giorno. I giapponesi conservano album di fotografie dei funerali come si fa per i matrimoni. Vogliono conservare il ricordo non solo dei lieti eventi, ma anche di quelli che nessuno di noi vorrebbe mai ricordare.
La morte per loro costituisce al contrario un evento da ricordare, perché essa non è una fine, ma un legame nella catena dei doveri che a scadenze precise e comandate si presentano (il periodo del lutto, gli anniversari speciali della morte, le feste dedicate ai morti, ecc.).
Non avevo un grande rapporto con mio suocero, ma la vista di una persona morta che conosci ti stringe inevitabilmente la gola. Ci ho pensato dopo e mi sono decisamente irritato. Ma come si fa a tollerare che qualcuno ti faccia delle foto mentre piangi per la perdita di un parente! La cosa purtroppo non solo è tollerata, ma è parte di tutto il pacchetto della cerimonia. Cerimonie dietro il quale ci sono giri di soldi pazzeschi. Finora conoscevo solo quello delle cerimonie nuziali ma ho scoperto che le imprese funebri e gli stessi monaci buddisti oltrepassano di gran lunga quel limite. Sembra che in questo paese tutto sia commercializzabile, non soltanto lo spettacolo della sofferenza umana, ma tutto ciò che c’è di terreno e ultraterreno. Guai però a fare una critica del genere davanti a un giapponese. Ti lancerebbe uno sguardo di disprezzo, quasi fossi un demonio che volesse stravolgere dinamiche assolutamente naturali e umane. Ma non c’è solo il fatto che le fotografie servono a ricordare, l’uso che i giapponesi fanno delle fotografie e molto diverso dal nostro, fotografano l’inimmaginabile, non solo per contemplare, rievocare, ma soprattutto per catturare momenti di vita che credono di vivere ma non vivono. Compresi quelli che si presentano in modo particolare e doloroso. Vi è un’inevitabile bisogno di mostrare la loro partecipazione a questa vita catturata a forza. Fotografano il primo sbocciare di un fiore di ciliegio perché esprime l’effimero, quindi la loro stessa vita che sfugge e si dissolve come la fioritura di ciliegi nell’arco di una settimana. Ma di questa sentimento dell’effimero non ne traggono alcuna lezione di vita. Non fanno nulla per migliorarla, per gioire, per renderla meno soffocante, più libera da schemi, regole, doveri spesso inutili e senza senso. Anzi, sembra che più questo “effimero” sia regolato da prescrizioni e doveri, più esprima la vita stessa, come se questo ordinamento fosse l’espressione o l’incarnazione di una legge cosmica universale. È una società senza valori, perché i valori costano e richiedono sacrificio personale. Hanno già dedicato se stessi a tutto il resto che non rimangono risorse personali se non per dei valori inutili.
Finito il teatrino degli scatti fotografici, arrivano delle persone dello staff e ci invitano, guidandoci passo a passo come bambini, a entrare dentro un autobus con tutti gli avvertimenti del caso a cui loro non possono assolutamente rinunciare: “attenti al gradino”, “attenti alla testa” ecc.
L’autobus ci conduce esattamente nel posto dove la salma deve essere cremata e sembra che qua, per legge tutti i defunti lo debbano essere. Appena giunti a destinazione arrivano come formiche altre persone dello staff (è incredibile come in Giappone siano necessarie così tante persone per i lavori più inutili) che ci invitano ancora una volta a non sbattere la testa uscendo dall’autobus, come se fossimo deficienti o masochisti, e ci fanno strada uno a uno dalle loro posizioni verso i forni crematori (non per noi per fortuna). Praticamente 100 metri di giardino erano coperti da almeno 20 persone che uno alla volta ci indicavano con la mano la strada da percorrere. Dentro la sala dei forni troviamo un’altra miriade di persone per soli 5 forni, ci invitano a salutare per l’ultima volta il defunto da una finestrella che si apre sulla bara e ne mostra il viso e poi via all’ignizione. Durante l’attesa ci invitano a sederci in una saletta privata dove arrivano dolci e bevande varie (anche alcoliche e nonostante tutto quello che si prendono per questa cerimonia, ci vengono messe in conto come negli hotel) e mentre il pover’uomo arde noi beviamo e chiacchieriamo amabilmente tra parenti semisconosciuti.
Dopo un po’ ci avvertono che la cremazione è finita. Ci rechiamo tutti nuovamente verso i forni dove succede quello che proprio non mi sarei mai aspettato. Viene aperto il forno e cominciano a rimestare i pezzi di ossa rimasti davanti ai nostri occhi. Alla vista di una parte delle ossa facciali di mio suocero io mi reco fuori, perché nonostante non sia particolarmente impressionabile, non mi piace vedere i resti di una persona conosciuta che fino a 30 minuti prima mostrava integro il suo corpo. Giuro, che ancora quando chiudo gli occhi, mi torna in mente l’immagine di quelle ossa facciali. La cosa che mi lascia interdetto è che se vai dal macellaio trovi la carne già prontamente tagliata senza ossi perché secondo lo shintoismo (altro cambio di religione e non vi stupite se cominciate a non capirci più niente perché si sono persi da secoli anche i giapponesi) il sangue e gli ossi dei quadrupedi sono considerati impuri e non devono essere mostrati. Anticamente (e qualche volta anche ai giorni nostri ma ne riparleremo meglio in futuro), chi faceva questo lavoro veniva bistrattato e trattato come una persona immonda mentre le ossa di un parente defunto non suscitano alcun turbamento o repulsione.
Mentre un po’ confuso continuo a passeggiare, arrivano altri parenti a invitarmi dentro; i loro occhi esprimono ansia e mi invitano urgentemente a rientrare dicendomi qualcosa del tipo: “svelto! C’è la cerimonia delle ossa, non puoi mancare!”. Eh no! A questa cerimonia passo e che si offendano pure! Dico che mi dà fastidio e preferisco evitare. Scorgo le loro facce sorprese perché quello che si apprestavano a compiere è per loro la cosa più normale del mondo, come lavarsi i denti la mattina.
Successivamente però mi sono fatto spiegare da mia moglie in cosa consisteva il macabro rituale. Praticamente ognuno dei parenti deve prendere un pezzo di osso con delle molle e depositarlo nell’urna cineraria. Le regole sono severe, bisogna iniziare dai piedi per arrivare alla testa. Verrebbe da dire:” vince chi completa prima il puzzle” se non si trattasse dell’incredibile realtà (che talora supera la fantasia). Scherzi a parte, la ritualità dell'azione serve solo a sottolineare che non sono le ossa di un pollo che puoi buttare nel bidone dell'immondizia e quindi diventa un gesto di deferenza verso il defunto, per quanto un tantino macabro.
A proposito mia moglie mi ha spiegato che è di malaugurio mentre si mangia prendere insieme lo stesso pezzo di cibo con le bacchette perché ricorda proprio questo rito. Quando finalmente finisce tutto veniamo guidati di nuovo dal personale delle onoranze che ci ripete il ciclo delle indicazioni e gli avvisi per risalire in autobus e tornare nuovamente alla Memory Hall.
In questo paese ogni giorno sembra di vivere tanti déjà vu, tale è la mole delle ripetizioni delle cose che si devono fare e delle stesse frasi che, provenienti dagli altoparlanti sparsi ovunque, si devono ascoltare (l’inquinamento acustico di una città come Tokyo non ha rivali, non solo, sembra che nessuno conosca la parola “inquinamento acustico” tanto vi ci sono abituati). Come ogni cerimonia che si rispetti non c’è conclusione degna se non finisce con un banchetto. Immagino che mangiare e chiacchierare serva tutto sommato ad allentare la tensione, a sdrammatizzare l’angoscia della morte, visto che ogni popolo ha un diverso modo di affrontare questo evento.
Tra le cose curiose, questo Memory Hall è come una specie di hotel, con diverse stanze private, con tanto di vasche e docce (ma non chiedetemi il perché), stanze per le cerimonie e sala per i banchetti. In questa sala vicino ai tavoli si trova una specie di altarino con la foto del defunto, a cui davanti viene appoggiato lo stesso pasto che tutti i commensali consumano per esprimere la comunione con i viventi. Ci mettiamo tutti a tavola.
In generale in Giappone, la persona più importante del banchetto, deve stare seduta a un lato centrale del tavolo a destra o a sinistra. Nella nostra situazione, per qualche strana ragione, occupa questa posizione la parente più anziana, che è anche la più chiacchierona e rompiballe della giornata (oltre ad essere la prossima candidata alla cerimonia funebre!) che in continuazione parla dei tempi della guerra, riporta pettegolezzi su persone estinte, malate, senza risparmiare anche qualche punta di malignità nei confronti di mia suocera, anch’essa defunta. Parla con tutti, pure con mio figlio di un anno, ma mai con me.
Improvvisamente mi rendo conto che non solo lei, ma nessuno, fin dall’inizio mi ha quasi mai rivolto la parola se non per dirmi cosa dovessi fare. Praticamente anche gli stranieri devono obbedire alle loro regole, partecipare alle loro cerimonie ma poi diventano poco più del fondale di una stanza quando si tratta di parlare del più o del meno o essere parte della società comune e non ti danno considerazione neanche per finta o per simulare un minimo di educazione. A ripensarci mi viene una rabbia incredibile, praticamente non conto niente e non perché loro non mi conoscono, quasi nessuno di loro si conosceva prima di incontrarsi in quell’occasione ma io ero un’eccezione … come se non fossi degno di partecipare al loro banchetto.
Questo è purtroppo quello che succede quasi ogni giorno a uno straniero che vive qua, a volte, all’opposto ti coprono di considerazioni (soprattutto i giovani) perché essendo straniero li incuriosisci come le scimmie incuriosiscono i bambini allo zoo, ma il più delle volte (soprattutto gli anziani) ti ignorano completamente (e devo dire che i giapponesi hanno un’abilità particolare nell’ignorare qualcuno o qualcosa).
Quindi mi trovo in questo pranzo considerato solo da mia moglie che per fortuna commenta sarcasticamente con me quello che avviene durante questo pranzo e non mi stupisco che queste persone non si siano mai, oppure di rado incontrate in vita loro. Prima di questa esperienza agognavo tantissimo una famiglia giapponese, visto che da quando sono qui sono praticamente sempre stato solo con mia moglie e avevo grandi aspettative da questa riunione, seppur in una spiacevole evenienza. Adesso posso farne volentieri a meno, nonostante sia molto dispiaciuto, preferisco godermi mia moglie e mio figlio e dimenticarmi di questa gente.
Comunque, mentre tutto il resto dei commensali chiacchiera ancora per una volta del più e del meno arriva il tipo con la faccia da becchino che, senza alcun riserbo, interrompe tutti i discorsi e ci invita cortesemente ad andarcene. Tutti si alzano mestamente perché qui funziona così, da noi sarebbe stato maleducato interrompere un pasto, soprattutto in un’occorrenza del genere, ma qua no. Anche la maleducazione spesso è sistemica, e al contrario, un gesto per noi educato (come per esempio se vediamo qualcuno in apparente difficoltà e chiediamo se ha bisogno di aiuto…praticamente ho smesso di aiutare le mamme col passeggino a fare le scale visto che tutte le volte mi sembrava di fargli un torto), è spesso ritenuto impertinente e fastidioso.
Torniamo a casa con il tizio dalla faccia da becchino che ci segue, come a dire: “la morte ti sta sempre appresso”. Una volta arrivati a casa ci sistema un altarino in una stanza. Nel nostro caso scegliamo la washitsu (la stanza in stile giapponese con il tatami) e accanto alla foto viene posizionata della frutta e l’urna con il resto delle ossa e delle ceneri che deve restare nella casa per 49 giorni; dopodiché l’urna verrà messa nella tomba di famiglia rappresentata da una sola lapide senza foto con su scritti i nomi dei defunti, ma cambiati nella forma buddista (anche qui sempre che nessuno sia mai stato in vita sua buddista). Questo nome postumo si chiama “kaimyo”, viene dato perché la morte è un passaggio, il funerale è un rito di passaggio, si passa da una condizione di vita a un’altra; il nome rappresenta una identità diversa da quella avuta in vita (lo shintoismo, la religione autoctona, non ha una escatologia sviluppata, quindi non dice nulla o molto poco riguardo alle condizioni di vita dell’anima dopo la morte, a questa assenza risponde appunto il buddismo). Fin qui tutto bene se non fosse che i monaci, in accordo con le imprese funebri si fanno pagare questi Kaimyo e vi garantisco che questi soldi non vanno in beneficienza ma se li intascano direttamente loro. Se questo non bastasse, aggiungo che ci sono diverse tariffe, a seconda del nome e si va da un Kaimyo di fascia bassa che costa 300.000 yen fino al top di gamma che viene 200.000.000 yen. Vi chiedete perché mai i parenti non dovrebbero scegliere il nome postumo meno costoso? Semplice, perché più costoso è il kaimyo e più sicura e agevole è la strada verso il paradiso. Che ci fossero delle corsie preferenziali nell’aldilà con pagamento in moneta questa proprio mi sfuggiva e ringrazio i monaci buddisti giapponesi per questa importante dritta. Se una persona volesse fare un torto all’odiato parente anche dopo la morte sa come fare: basti che gli compri un kaimyo da pezzente. In ogni caso è molto interessante vedere non solo come questa gente del settore se ne approfitti ma come tutti gli altri si bevano questa storia e ingrassino le tasche di questi santoni.
Per fortuna mia moglie poi mi ha raccontato che recentemente sempre più persone della nuova generazione rifiutano questo tipo di rito funebre per loro macabro e troppo impostato (anche decisamente costoso) e a volte celebrano il tutto senza monaco, con semplicemente della musica di sottofondo e senza il rito delle ossa e dell’urna. Anche la madre di mia moglie non aveva simpatia per la cerimonia classica e aveva lasciato tra le disposizioni la volontà che partecipassero solo il marito e le due figlie al rito. Quando il tizio delle onoranze funebri se ne va mia moglie e sua sorella si mettono attorno al tavolo con una pila altissima di documenti e cominciano a discutere di faccende legali.
Tutto abbastanza regolare se non per una cosa che mi incuriosisce particolarmente: come per i matrimoni i parenti più lontani devono lasciare una busta con dei soldi alla famiglia se nonché, circa la metà deve essere restituita sempre in una busta al mittente. Ho scoperto in seguito che questo viene fatto anche in altre circostanze; anche nel compenso di una prestazione musicale o altro. Sinceramente non capisco il senso di tutto questo, ma sono troppo stanco per chiedere ulteriori spiegazioni che alla fine comunque, essendo uno sciocco straniero, non potrò mai capire.
La giornata finisce e quando pensi di poterti mettere tutto alle spalle, il giorno seguente arriva, senza preavviso, una persona delle pompe funebri che suona alla porta e ci chiede di entrare per consegnarci un questionario di gradimento del servizio svolto. Passati un paio di giorni invece chiamano mia moglie al telefono dicendo di recarsi alla loro sede con sua sorella per parlare di alcune pratiche da sistemare e abbastanza urgenti. Arrivate lì scoprono che si tratta solo di una scusa e cominciano subito a parlare di promozioni e sconti famiglia nel caso qualcun altro membro della famiglia (e qui le corna ci stanno tutte) dovesse ancora avere bisogno dei lori servigi. Ma perché tutto in questo paese deve essere così grottesco e amareggiante?